Jean des Esseintes, il raffinato protagonista di un famoso romanzo ottocentesco, amava molto il latino, ma solo quello di età imperiale. Speciale la sua passione per Apuleio, della cui opera, si narra, possedeva la prima edizione a stampa, datata 1469. L’attiravano soprattutto le Metamorfosi, per la loro lingua modulata «en une teinte bizarre, exotique, presque neuve». La storia del giovane Lucio, che finisce incautamente trasformato in asino per ritrovare solo dopo molte peripezie la forma umana, e con essa una diversa consapevolezza di sé, ha avuto in effetti una fortuna secolare, anzitutto come repertorio di racconti (lo provano le riprese, tanto per fare un esempio, nel Decameron). Ma oltre a ciò, il romanzo di Apuleio consente di essere percorso e inteso in molte altre direzioni, a cominciare dalla ricerca di fonti e modelli. La critica recente l’ha indagato instancabilmente, studiandone le risonanze folcloriche, le tematiche religiose, le strutture narrative. Si è tentato di spiegare unitariamente un testo che risulta invece nemico dell’univocità, e che (ulteriore sfida) pare non lasciarsi afferrare interamente né come narrazione seria, né come storia comica.
Esito di lunga applicazione a questo complesso e coinvolgente libro è ora la nuova edizione delle Metamorfosi per la Fondazione Valla, prevista in quattro volumi, assegnati a vari studiosi coordinati da Alessandro Barchiesi e Luca Graverini: è in libreria il primo, per il quale Graverini ha scritto introduzione, traduzione e commento, mentre Laura Nicolini ha curato il testo critico (Apuleio, Metamorfosi, volume I, Libri I-III, Mondadori, pp. cxxx-390, € 50,00).
L’ampia introduzione presenta con chiarezza i temi posti dall’opera e le differenti tendenze della critica. Se ne apprezza l’equilibrio: scegliendo come guida l’analisi il testo, e non una teoria letteraria, ne segue in modo naturale che «è estremamente difficile dire se vi sia una chiave di lettura privilegiata per le Metamorfosi». Una lettura capace cioè di esaurire le prospettive volutamente sfuggenti del testo e che allo stesso tempo si possa ritenere «prevista e incoraggiata dall’autore». Ciò appare già dalla prima pagina, quando il lettore si chiede a chi appartenga (all’autore? al protagonista? al libro?) la voce che parlando lo invoglia a leggere una storia che lo divertirà. Poi, lungo la variegata vicenda, picaresca e piccante, ma anche simbolicamente profonda, resta aperta la domanda «se e quanto questo racconto intenda trasmettere al lettore un qualche messaggio edificante». Certo, tale sembra la redenzione finale del protagonista: egli riscatta il proprio peccato dopo infinite disavventure e il degrado della metamorfosi asinina, e finalmente diviene seguace devotissimo della dea Iside.
Tutto sembra ancor più edificante, perché il lettore ha già incontrato nel libro vicende, come quella di Amore e Psiche, che con grande evidenza allegorica rinviano allo stesso percorso di caduta, sofferenza e redenzione. Ma il rapporto tra il finale misticheggiante del libro e le avventure precedenti è da sempre molto discusso. Si è pensato che l’autore l’abbia collocato come esibita sorpresa, oppure come palinodia posticcia dell’edonismo che domina nel corso del racconto, dove sono frequenti situazioni non certo mistiche, ma molto «graphic» (ovvero: ricche di enargheia). Altri esegeti hanno pensato che il finale riveli il «vero» senso dell’intera storia. Però il narratore che l’enuncia è un individuo, come già il protagonista del romanzo di Petronio, largamente screditato. Screditato perché inopportunamente curiosus, e soprattutto perché ingenuo, credulo. Un giovane incapace di comprendere quanto gli capita intorno, che viene infine salvato e condotto sulla retta via dal caso (o dalla provvidenza?). La vicenda di Lucio non è priva di inverosimiglianze, di magie e bizzarrie di vario tipo. Il lettore è chiamato da subito a un preciso patto narrativo: credere a quanto gli si racconta, proprio come il protagonista crede a quanto gli accade. Graverini svela argutamente il meccanismo, chiedendosi come possa funzionare il tutto «se il lettore non è asino quanto Lucio» (xxxii). E quindi?
In una storia ricca di digressioni e di variazioni tonali, nella forma mista di serio e comico che gli antichi chiamarono spoudogeloion, frequenti depistaggi abbassano il tono anche delle cose serie. Così per la novella di Amore e Psiche, il grande «mito» platonico che fa pensare a un romanzo «di formazione», ma il cui senso profondo non è còlto dal protagonista/narratore (e nemmeno dal personaggio a cui nel libro viene raccontata). Forse la leggerezza è il modo per far «passare» contenuti altrimenti troppo seriosi?
Né ci sono solo le storie: a modo suo, il romanzo è anche un «documento» sulla vita urbana nella Grecia imperiale. Un mondo composito, fatto di taverne e case di lusso, malfattori e anfiteatri, sottocultura magica e elevati misticismi. Per accostare tutto questo giova assai un commento analitico, come quello qui proposto, che fornisce gli strumenti per affrontare il testo secondo la prospettiva degli antichi non meno che secondo i moderni, filologi o letterati. Le molte proposte di interpretazione discusse riflettono l’abbondantissima ricerca recente su Apuleio, che coinvolge anche la definizione testuale (ampie delucidazioni sugli interventi proposti sono fornite dalla curatrice). Il commento orienta ad affrontare un autore letteratissimo e dottissimo, che consapevolmente mira a depistare in più punti il lettore. La narrazione, sofisticata ma basata su materiali preesistenti, è costruita a partire da modelli letterari, numerosi e stratificati.
Ulteriore elemento di speciale interesse è costituito dalla lingua. Scrisse Alfonso Traina che nel latino di Cesare e di Cicerone la «cellula stilistica» è il periodo; in quello di Seneca la frase, in quello di Apuleio e della sua epoca la parola. Ecco infatti la lingua delle Metamorfosi mostrare una «creatività disciplinata», un’espressione mobilissima e variata, una mescolanza peculiare di forme colloquiali e poetiche, di arcaismi e di neologismi, e un periodare spesso artificioso, e dal ritmo studiatissimo. Riprodurre nella lingua moderna questa miscela dotta e piacevole, è sfida ardua, forse impossibile. Sui dilemmi e le scelte del traduttore di Apuleio un’ampia e brillante riflessione si legge nell’introduzione alla traduzione curata da Alessandro Fo (Einaudi 2010²): «ogni parola, ogni iunctura, ogni frase, ogni struttura ritmico-sintattica si inventano una loro forma, una loro fantastica sovrarealtà letteraria, e rappresentano di conseguenza una sfida, così che quasi ogni periodo rappresenti una costellazione di prove, un cimento». Per questa via, Fo approda a una resa in cui trovano spazio i molti elementi «stranianti» dell’originale. Graverini ha privilegiato la cura semantica, evidente dalle discussioni esposte nel commento, e la scorrevole leggibilità: i risultati sono buoni, vista la difficoltà di reggere per notevole estensione la tensione stilistica del testo.
Con minore impegno sono ricreati, almeno in questo primo volume, il sound e il ritmo, i vezzi e gli svolazzi della prosa apuleiana. Il famosissimo (e spiazzante) incipit del romanzo è reso così: «E in questa conversazione milesia io intreccerò per te storie di ogni genere e incanterò le tue orecchie benevole con un dolce sussurro; soltanto, tu non rifiutarti di esaminare questo papiro egizio ingegnosamente vergato con una sottile canna del Nilo». Si notano subito le scelte riflettute (sermo: conversazione; permulcere: incantare), ma forse viene meno certa esibita pirotecnia del latino. Dopo aver sollecitato l’inventiva del Fiorenzuola, Apuleio ispira infatti il virtuosismo dei traduttori. Ecco cosa si otterrebbe, per esempio, seguendo la scia di Sanguineti: «Ma che io, a te, adesso, in questo stile à la Mileto, te la intreccio così, una storia con tanti fili diversi, e le tue orecchie, se solo disposte a darmi retta, ecco, te le vorrei carezzare, sottovoce, e tu, però, devi aver proprio voglia di guardartele per bene le pagine di questo libro d’Egitto, che sono scritte in punta di penna del Nilo…». Una scelta davvero troppo eccentrica, forse poco leggibile, certo lontana dal divertimento che Apuleio si propose, riuscendovi, di suscitare nei suoi lettori.