John e Molly Chester raccontano in documentario la storia di Apricot Lane Farms, la loro azienda agricola biodinamica di 80 ettari a un’ora da Los Angeles. Otto anni di riprese quotidiane, a partire dal 2010, per ricostruire la realizzazione de La fattoria dei nostri sogni (questo anche il titolo del doc, al cinema nelle sale italiane dal 5 settembre, distribuito da Teodora Film).

La fattoria era in abbandono. John e Molly venivano dalla città. Lui – regista e operatore – aveva iniziato la carriera girando documentari sulla natura in giro per il mondo, per Animal Planet e ITV Wildlife. Lei aveva lavorato per anni come chef privato a Los Angeles, ed era l’autrice di un seguitissimo blog Organic Spark, dedicato al cibo tradizionale e biologico.

Il primo impatto è devastante: «Il suolo era morto, e non avevamo idea di come riportarlo alla vita». Anche Apricot Lane Farms, come altre proprietà abbandonate nella zona, era fondata sull’agricoltura intensiva, in particolare di avocado e limoni: è – in modo leggero – una denuncia di un modello agricolo insostenibile, che lascia in eredità ai nuovi proprietari zolle dure come sassi, e fondamentalmente morte, prive di humus.

I Chester iniziano a ripopolare la fattoria di animali e piante, perché questo è il modo per riportare in vita il terreno. Le api che tornano a sciamare al terzo anno rappresentano una «certificazione» della qualità dell’ambiente che hanno saputo (ri)costruire.
Insieme a loro, alcuni animali diventano personaggi chiave della narrazione, come la scrofa Emma. Nove anni dopo l’arrivo di John e Molly, Apricot Lane Farms ospita 850 animali e 75 varietà di coltivazioni, in particolare di frutta con nocciolo, in regime biodinamico certificato da Demeter. E – dal dicembre 2015 – ospita anche Beauden, il primo figlio della coppia.

Il primo successo della nuova gestione aziendale sono state le uova, uova di galline allevate a terra, senza uso di mangimi: anche oggi rappresentano uno dei best seller aziendali, anche per ciò che raccontano rispetto all’approccio aziendale.

Il documentario, però, non è solo la storia di successi. Parla di come John e Molly, insieme ai loro collaboratori, affrontino le difficoltà della nuova vita da contadini, dalla perdita del 70 per cento della frutta, letteralmente assaltato dagli stormi, all’invasione delle chiocciole, alla presenza del coyote, che assalta e mangia le galline.

La lezione che lascia? Dalla capacità di osservare arrivano le possibile risposte, utili a risolvere i problemi. «La cosa bella della natura e di una fattoria, in ogni caso, è che hanno dei ritmi propri e si può prevedere in anticipo cosa sta per succedere. Si tratta di osservare e stare lì ad aspettare che accada qualcosa. Questa è ovviamente la formula perfetta per girare un documentario sulla natura ma è buffo che valga anche per mandare avanti una fattoria: osservare e giocare d’anticipo» spiega John Chester.
Uscito a maggio in America in sole 5 sale, grazie al passaparola e alle critiche eccezionali La fattoria dei nostri sogni (titolo originale: The biggest little farm) ha raggiunto ben 285 schermi, contagiando letteralmente gli spettatori grazie a una visione mai banale di Madre Natura.

La scommessa del distributore indipendente Teodora Film è se la stessa risposta potrà arrivare da un pubblico italiano. Quella raccontata è una storia molto americana, per certi versi soltanto abbozzata (chi sono gli investitori che sposano il progetto della coppia, finanziando l’acquisto della enorme proprietà?), che non affronta – per scelta, s’immagina – alcuni dei temi chiave per un giovane che voglia diventare contadino: esistono strumenti e modelli per garantire l’accesso alla terra? Qual è il modello economico che garantisce oggi la sopravvivenza di un’azienda agricola? Che scelta ha fatto Apricot Lane Farm? Qualcosa s’intuisce sul sito aziendale, ma il documentario resta comunque il racconto di un sogno. Aprirà un dibattito?