In The Importance of Being Earnest, Algy regala al pubblico un detto memorabile: «la verità è raramente pura e mai semplice». Negli studi letterari la ricerca di una «verità pura e semplice» è spesso affidata all’analisi di documenti personali: tra questi, la corrispondenza. Ma anche le lettere obbediscono a meccanismi finzionali. Hanno obiettivi da raggiungere, effetti da ottenere. Da un punto di vista stilistico, sono spesso parte integrante dell’oeuvre di un autore. Lo dimostra l’epistolario integrale di Oscar Wilde, uscito per Il Saggiatore, Lettere (traduzione di Silvia De Laude e Luca Scarlini, pp. 1276, euro 65,00), dove non vengono certo rivelate verità ignote e, tuttavia, attraverso il lento tratteggio di un carattere, viene permessa la formulazione di ipotesi nuove e insospettate sullo scrittore di Dublino. Accade, per esempio, in una lettera dei primi anni novanta dell’Ottocento, rivolta a George Bernard Shaw, conterraneo di Wilde: «l’Inghilterra è il paese delle nebbie intellettuali, ma lei ha fatto molto per dissiparle… siamo entrambi dei celti».

Mostrare stupore di fronte alla Irishness di Oscar Wilde sarebbe come vantarsi di avere scoperto che il mare è salato. Ma sottolineare la «carsicità» intrinseca alla produzione di questo (s)fortunato scrittore, può condurre a interessanti percorsi interpretativi. Wilde ebbe molti editori, e con tanti di loro intrattenne rapporti spesso problematici. Fra questi, Elkin Mathews sarebbe stato anche editore di Joyce; quello stesso Joyce che avrebbe scelto proprio Wilde come uno degli innumerevoli modelli di HCE in Finnegans Wake. Molti anni prima, però, in una conferenza tenuta a Trieste, Joyce aveva ricordato l’irlandesità di Wilde, sottolineando come questi, agli albori della carriera, usasse il proprio nome completo, un nome da celta: «Oscar Fingal O’ Flaherty Wills Wilde».

D’altro canto Wilde era figlio di una fervente nazionalista, Lady «Speranza», e di un altro grande irlandese, Sir William, la cui reputazione lo indicava sì, come l’«uomo più sporco d’Irlanda», e al contempo come chirurgo abilissimo (si racconta di una tracheotomia d’urgenza, praticata con un paio di forbici), ma era anche uno dei maggiori studiosi del folklore irlandese. Perciò, non stupisce trovare nella corrispondenza di Wilde lettere a Lady Gregory, e al di lei sodale, W.B. Yeats che, dovendo compilare una raccolta di poeti irlandesi, chiese a Wilde di poter inserire la poesia «Requiescat», composta per la morte della sorella. Ma Oscar, attento al valore dell’intimità familiare, suggerì di orientarsi su un altro componimento.

La famiglia fu per Wilde un punto cardine. L’affetto per la madre si evidenzia, nelle lettere, infinito: lo dimostrano quelle inviatele dalla Portora School di Enniskillen, istituzione che avrebbe ospitato, decenni più tardi, un altro grande scrittore irlandese, Samuel Beckett. In una lettera indirizzata a Speranza, Wilde le chiede di spedirgli una copia della National Review, periodico che aveva pubblicato suoi versi appassionati, tra cui la famosissima «To Ireland», che ha inizio così: «La mia patria, colpita al cuore…» Durante un viaggio in Italia, Wilde scrive alla madre lunghe lettere sature di particolari: nel 1875, da Milano, le racconta di aver visitato la biblioteca Ambrosiana «dove abbiamo visto alcuni famosi manoscritti, due bellissimi palinsesti e una Bibbia con glosse irlandesi del sesto o settimo secolo». Non si trattava, in realtà, di una Bibbia, ma dell’Antifonario di Bangor, un antichissimo manoscritto irlandese.

Nel 1876 scrive a John Boyle O’Reilly, poeta e scrittore irlandese, e membro di quella Irish Republican Brotherhood che di lì a qualche anno avrebbe dato i natali all’Ira. O’Reilly, esule in America, dirigeva la rivista Pilot, e Wilde lo ringrazia dicendo: «considero un grande onore che il primo giornale Americano su cui appare qualcosa di mio sia il suo mirabile Pilot».
Per chi voglia scovare altri dettagli del retaggio irlandese di Wilde, un aspetto spesso sottovalutato dai critici, di grande interesse sono poi le lettere a quel professor Dowden che compare anche nell’Ulisse, o a Bram Stoker e a sua moglie – giovane amica di Wilde, che deve aver lasciato in lui un segno indelebile: «anche se non ti sei curata di informarmi del tuo matrimonio, non posso lasciare l’Irlanda senza mandarti il mio augurio di essere felice».

Gli anni londinesi sono ovviamente i più documentati. Le lettere ci mostrano un Wilde ossessionato dall’idea di accreditarsi presso i grandi del tempo: scrive a Robert Browning, Matthew Arnold, Sir Henry Irving, Ellen Terry e a molti altri, ma questi testi sono tanto meno interessanti in quanto rivelano, in realtà, solo i tratti più pubblici del suo carattere. Di ben altro tenore, le righe inviate a Stéphane Mallarmé: «Caro Maestro, non so come ringraziarla per la squisita maniera con cui mi ha offerto la magnifica sinfonia in prosa che le melodie del grande poeta celtico Edgar Allan Poe le hanno ispirato». Ancora e sempre l’Irlanda.

Altri filoni contrastanti ma perciò stesso rivelatori si rintracciano nelle missive che coinvolgono l’amore della vita di Wilde, «Bosie» («mia dolce rosa, mio delicato fiore, mio giglio supremo, forse andrò in prigione per mettere alla prova la forza dell’amore»), così come significative sono le varie «suppliche» al Ministro degli Interni scritte dal carcere di Reading, in cui Wilde ci regala riflessioni disgraziatamente ancora attuali: «per più di tredici spaventosi mesi ormai il supplicante è stato sottoposto alla paurosa pratica della cella di isolamento; senza alcun rapporto umano; senza mezzi per scrivere… senza libri adatti né sufficienti, così indispensabili per un uomo di lettere, così essenziali all’equilibrio della mente; condannato all’assoluto silenzio; tagliato fuori dal mondo esterno e dalla vita».
I pensieri di Wilde sul sistema carcerario sono un’opera a sé. Andrebbero considerati non come un grido di dolore individuale, ma come un appello all’umanità e alla fratellanza universale: «per quanto spaventosi siano i risultati del sistema carcerario… tuttavia non c’è tra i suoi scopi quello di distruggere l’umana ragione». A seguito di una di quelle «suppliche», il ministro ordinò al direttore del carcere di concedergli materiale per scrivere e un maggior numero di libri.

Agli anni dello scandalo seguirono quelli del preludio alla fine. Le ultime lettere, dopo il ricongiungimento con il suo «ragazzo», sono meno intrise di passione, e riguardano spesso tentativi di ricevere pagamenti di royalties e sovvenzioni. L’ultima, composta otto giorni prima di morire, è indirizzata allo scrittore ed editore Frank Harris, e si conclude così: «confido di ricevere le 150 sterline che mi devi».
L’epistolario si chiude con un «epilogo», che contiene il resoconto di un prete passionista dublinese sull’estrema unzione somministrata a Wilde il 29 novembre del 1900, e si intreccia a lettere di terzi, utili a comprendere come lo scrittore visse durante i suoi ultimi giorni parigini.

Ecco quel che scrive Robert Ross, giornalista e critico canadese, nonché suo fedele amico fino alla morte: «domenica 25 non si è alzato, lamentava vertigini e durante la sera ha cominciato a delirare… sono grato di essere arrivato in tempo… il suo cadavere stava per essere portato alla Morgue. I funzionari francesi non riuscivano a comprendere l’assenza di parenti o rappresentanti legali…».
Così dunque moriva un dublinese, un irlandese che mai biasimò altri se non «se stesso dei suoi guai personali»; un uomo che – stando a quanto dice Ross – non «ha mai mostrato malanimo contro alcuno»: riflessione che procede naturalmente dai versi delicati di quel «Requiescat» composto per la sorella morta tanti anni prima: «qui è sepolta tutta la mia vita / ricopritela di terra».