Dopo il passaggio al Senato il Parlamento ha definitivamente approvato la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne. È una buona notizia, che vale la pena analizzare per poterne coglierne le reali implicazioni sul piano politico. In primis, tradizionalmente, le Convenzioni europee sui Diritti umani sono considerate di scarso interesse dai nostri politici, soprattutto perché non sono «binding», cioè cogenti. Anche nel caso di Istanbul la Convenzione ha sì strumenti di controllo indipendenti, il cosiddetto «Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza ne confronti delle donne e la violenza domestica (Grevio)» ma, come la gran parte di ciò che attiene ai protocolli del Consiglio d’Europa, per chi disattende non ci sono sanzioni effettive, solo raccomandazioni o richiami. Qui lo scarto con altre istanze, ad esempio con la Bce, è evidente, e richiederebbe un’azione politica di riequilibrio tra la gerarchia dei poteri in seno alla Ue.
Altro dato da tenere in considerazione è che la Convenzione ha bisogno di dieci Paesi per entrare in forze – attualmente hanno ratificato, oltre l’Italia, solo Turchia, Montenegro, Albania e Portogallo – e dunque una prima implicazione, sulla quale si misurerà subito il reale impegno della politica italiana, sarà quella di convincere altri partner europei a ratificarla. Ma, nel caso si dovesse prendere Istanbul sul serio, le implicazioni sulle leggi nazionali sarebbero importanti. La Convenzione, infatti, interagisce con un ampio spettro di situazioni, cominciando dalle scuole, in cui è prevista, ad esempio, l’introduzione di corsi per formare alle relazioni di genere. Chissà cosa ne penserà la ex ministra Gelmini e, più in generale, la sua parte politica.
Altre disposizioni ineriscono alla protezione delle vittime, con tanto di fondi destinati a queste attività e la messa in essere di strutture protette, la sensibilizzazione delle forze dell’ordine, i cambiamenti delle norme penali, ed infine, ma non per importanza, la cooperazione internazionale sia a livello della collaborazione tra le varie polizie sia come aiuto allo viluppo, al quale l’Italia dedica attualmente il costo di un F35 modello base, cioè senza armi. Dove verranno trovate le risorse per fare tutto questo? Non a caso il parlamento ha approvato la Convenzione ma senza parlare di risorse. La ministra Idem e la Ministra Kyenge si stano battendo con convinzione su questi punti, e certamente la Convenzione darà una cornice importante alle loro richieste. Un’altra serie di articoli, utili a comprendere la posta in gioco con Istanbul, al di là delle facili retoriche, sono quelli relativi all’immigrazione e, più in generale, alla protezione delle donne che vengono da paesi in cui potrebbero, o hanno già, subito violenza.
Ma non finisce qui. L’articolo 61 – Diritto di non-respingimento – impegna le Parti ad «adottare le misure legislative o di altro tipo necessarie per il rispetto del principio di non-respingimento, conformemente agli obblighi esistenti derivanti dal diritto internazionale. Ad adottare le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime della violenza contro le donne bisognose di una protezione, indipendentemente dal loro status o dal loro luogo di residenza, non possano in nessun caso essere espulse verso un paese dove la loro vita potrebbe essere in pericolo o dove potrebbero essere esposte al rischio di tortura o di pene o trattamenti inumani o degradanti». Se pensiamo solo all’interminabile sequela di violenze e soprusi che ogni donna immigrata quasi necessariamente subisce prima di arrivare nel nostro paese, se si volesse, anzi se si dovesse, come noi auspichiamo, applicare la Convenzione, quanto dovrebbero cambiare le attuali politiche che regolano i Cie, i Cara e tutti i vari luoghi istituzionalizzati dello stesso tipo? In sostanza, reggerebbe la maggioranza bipartisan a questo shock? Lo vedremo presto.