In un incontro con Dacia Maraini (organizzato da Laura Fortini il 3 marzo scorso all’università di Roma Tre, prima del lockdown) la scrittrice ha affermato che l’etica deriva dalla capacità di immaginare il dolore degli altri. Ma che cosa accadrebbe se l’immaginazione, e con essa, il senso di realtà non fossero più organizzate, ma si confondessero nell’indistinzione? Che succederebbe se l’equilibrio tra cenestesi, la capacità di sentire la nostra carne dall’interno, e il bisogno di riconoscersi dall’esterno come oggetto di percezione fosse mandato in crisi?

PER IMMAGINARE bisogna conservare le tracce del confine tra noi e gli altri, ciò che ci distingue e ci collega insieme. Tale discussione è al centro del bel libro di Giovanni Stanghellini, Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro (Feltrinelli, pp. 152, euro 18). Si tratta di una fenomenologia del selfie, quell’urgenza di autorappresentarsi e postare all’istante immagini della nostra esistenza, perché vengano approvate e commentate.

Secondo lo psichiatra autore del volume la tentazione di una costante autorappresentazione è un sintomo che come tale non può essere giudicato, perché esibisce l’emergenza di una compensazione. Il selfie sarebbe il sintomo della perdita della carne, quel sentimento di sé che non è mediato dall’esterno, ma che configura la continuità della nostra vita, nel silenzio del funzionamento degli organi, o nella percezione di un dolore o di un’emozione incontrollata e informe. La percezione di questa dimensione del corpo nella storia dell’umanità non è mai avvenuta in modo isolato, ma insieme con la rappresentazione del corpo come oggetto del proprio sguardo dall’esterno e con la costruzione di un habitus che ci istituisce silenziosamente come appartenenti a un gruppo.

Tale corpo vissuto e organizzato è frutto di una mediazione non solo con l’autorappresentazione del corpo vissuto, ma anche con lo sguardo dell’altro. L’equilibrio ottico cenestesico tra il corpo come oggetto e il corpo che si patisce dall’interno è ciò che garantisce la stabilità psichica.
Essere troppo concentrati solo sulle nostre sensazioni senza riconoscerci nello sguardo dell’altro ci fa precipitare in una solitudine priva di comunicazione, ma anche essere definito solo come oggetto dello sguardo, o percepirsi esclusivamente dall’esterno, come corpo oggettivato, impedisce la continuità del sentire e la territorializzazione, sia pure precaria, di un’identità.

Un primo passo della descrizione fenomenologica è l’associazione tra la tendenza all’autorappresentazione e l’anoressia: il corpo come compito, costruzione, oggetto di misurazione, per essere pronto per lo sguardo dell’altro, per stare al passo con la richiesta di prestazione promossa dal modello ideale, ma anche dalla biomedicina. La religione del digiuno, ma anche l’idolatria dell’apparenza. Stanghellini cita la canzone di Nitro – rapper controverso – dal titolo l’oracolo del selfie. Il selfie è una ricerca di identità sempre dipendente dall’istante e quindi mai garantito dalla durata.

L’AMORE PER IL VISIBILE spinge a morire per uno scatto spettacolare. Per essere finalmente visto, per potersi vedere, riconoscere nello sguardo ammirato dell’altro. È la prima possibilità di riconoscersi: vedersi negli occhi dei genitori per essere identificati la prima volta come soggetti. Anche il volto dell’altro, però, può essere qualcosa di estraneo e straniante, e allora meglio cercare lo sguardo a distanza, per suggellare una presenza sempre minacciata dall’indistinzione. Lo sguardo istituisce ma, senza cenestesi, può annientare, rinviando a una estraneità a noi stessi che ci deterritorializza.
Il dialogo, l’incontro di sguardi in presenza è desiderato in modo ambivalente perché nasconde anche una minaccia all’integrità personale, in quanto dipendente, evanescente e precaria. Non si permette a nessuna emozione di precedere la razionalizzazione, e nell’assenza dell’esserci si dissolve l’opposizione tra essere e apparire. Tutto è apparenza, perfino il nostro corpo lo diventa per noi.

Il corpo è oggetto di rappresentazione, di misurazione, digitalizzazione e di un discorso di omologazione. Non si può garantire l’esistenza, se non come oggetto di una istantanea presenza a distanza. Il selfie, come l’anoressia sono il sintomo di una strategia di riterritorializzazione, quando manca il corpo percepito dall’interno e anche quello vissuto è una conquista del vedersi riflesso.

L’UNIVERSALIZZAZIONE della rappresentazione ottica si contrappone all’individuazione della sensazione intima di sé che vive nella singolarità, in una durata destinata a dissolversi. La distanza ottica sottrae la carne alla sua pericolosa e deperibile materialità, ma mefistofelicamente reclama il lavoro infinito e mai appagante della richiesta di riconoscimento di un altro sguardo, depotenziato dall’assenza. La soluzione di questo dilemma dell’identità per l’autore non è nella narrazione, perché troppo dipendente dal contare – come mostra l’assonanza di conto e racconto – ma nell’eccedenza dell’evento, nell’apertura alla singolarità dell’accadere.

Esito costruito sull’immanenza, e non troppo chiarito, come non è chiarito il ruolo della tecnologia presentata come processo di civilizzazione senza discussione. Un fatto inevitabile che ci determina, uno specchio del mostro che è dentro di noi. Il concetto di macchina è usato nell’oscura accezione deleuziana, sia per indicare la dimensione cenestesica, sia per la rappresentazione ottica, l’assoggettamento allo sguardo altrui. Nell’indistinzione concettuale è facile la confusione, come quella che vede nella carne la dissoluzione, mentre solo il corpo organizzato dalla rappresentazione garantirebbe l’ordine della vita.

VA PRECISATO che sebbene la carne sia destinata a perire, è a lei che si deve in prima battuta l’essere vivente. Se la nostra identità è intessuta dall’habitus sociale, un insieme di abitudini indiscusse e condivise, è là che si gioca forse, la costruzione di un ordine transitorio, ma denso di significato, dove si definisce la consapevolezza del senso di realtà, del limite e della vulnerabilità propria di ogni essere vivente.

Esistiamo non solo come singoli, ma nell’alleanza intergenerazionale e intra-specie, collettivamente. Del ruolo dell’individuazione collettiva nel libro non ci sono che tracce sporadiche, che attendono di essere organizzate in una narrazione, nell’immaginazione del dialogo polifonico inesauribile. Diremmo con Donna Haraway che abbiamo bisogno di generare una rete di parentele, capace di eccedere ogni contabilità e ogni rigida rappresentazione universalizzante, in grado, perciò, di riterritorializzarci tra le rovine dell’intimità della percezione di sé.