La scrittura di autori tra i più grandi della poesia del Novecento – Rilke, Pessoa, Celan – si muove negli spazi del limite, dell’invisibile, dell’indicibile, del nulla, dell’assoluto. Sono questi anche gli spazi dell’esperienza mistica. La sua storia millenaria nel mondo occidentale, nei testi e nelle interpretazioni, ci viene ora offerta nel ricco primo volume de La mistica cristiana («I Meridiani. Classici dello Spirito» Mondadori, pp. LXXXVIII-1620, € 80,00) dedicato a Mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale. Nell’Introduzione generale Francesco Zambon, che firma il progetto editoriale, affronta con lucido e sensibile respiro teorico questioni di fondo come il linguaggio mistico, mistica e poesia, partendo da una domanda primaria: «Che cosa si intende ora, in senso religioso, per mistica?». Egli esamina da vicino tutte le definizioni, alquanto problematiche, che sono state avanzate e che hanno messo l’accento sull’«esperienza», o sulla «presenza», o sull’«unione», o sulla «coscienza», e con una mossa di grande rilievo, «per liberare il campo da falsi problemi che nascono in gran parte dalla pretesa di definire l’“essenza” della mistica e che hanno spesso portato a visioni storiche parziali e deformanti», sceglie di mettere in primo piano i testi: «Per parlare della mistica, ricostruirne la storia, cercare di definirne la natura o illustrarne le trasformazioni, non abbiamo che i testi, la nostra unica risorsa e possibilità di accesso sono i testi».
La scelta di privilegiare i testi, la loro interpretazione, il loro concreto valore di testimonianza e di poesia, è la grande novità di questo volume, che si differenzia quindi esplicitamente dal suo antecedente più importante, la silloge I mistici dell’Occidente (1963) di Elémire Zolla, dove la mistica è una «scienza sacra» che, attraverso un’esperienza iniziatica, compie il «ritorno della tradizione», e dove si offrono per lo più brani di lunghezza ridotta e senza alcun commento.
Il volume – altri due seguiranno – si articola in quattro ampie sezioni, nelle mani di riconosciuti specialisti, che assicurano una precisa collocazione storica e una serrata esegesi dei testi. Come detto, sono Mistica tardogreca e bizantina – con Ireneo, Origene, Gregorio di Nissa, pseudo-Dionigi Areopagita, Giovanni Climaco, Simeone il Nuovo Teologo … – a cura di Marco Rizzi; Mistica siriaca – con le Odi di Salomone, Afraat il Persiano, Isacco di Nivive, Giovanni di Dalyata … – a cura di Sabino Chialà; Mistica armena – con Gregorio di Narek, Nersês Shnorhali … – a cura di Boghos Levon Zekiyan; Mistica latina e italiana medievale – con Ambrogio, Agostino, Giovanni Scoto, Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Riccardo di San Vittore, Iacopone da Todi, Chiara d’Assisi, Angela da Foligno, Caterina da Siena … – a cura di Zambon.
In questa lunga storia un nodo centrale, di grande suggestione e di grande fortuna, fino a Giovanni Scoto, fino a Jacopone, è la «tenebra mistica» dello pseudo-Dionigi Areopagita. La sua teologia apofatica o negativa, che vede il non-Essere anziché l’Essere, approda alla «caligine luminosissima del silenzio che insegna arcanamente; caligine che fa risplendere in maniera superiore nella massima oscurità ciò che è splendidisssimo, e che esuberantemente riempie le intelligenze prive di occhi di splendori meravigliosi, nella completa intangibilità e invisibilità». Sembrerebbe un’aporia insolubile, ma l’esperienza mistica è in sé stessa parola, come approssimazione al Verbo divino, in cui sono contenute tutte le parole. Si ascolti Agostino, quando rievoca la conversazione con la madre nella visione di Ostia: «Mentre ne parlavamo e vi anelavamo, la toccammo appena in uno slancio totale del cuore; e sospirammo e vi lasciammo avvinte “le primizie dello spirito” e ridiscendemmo al vuoto strepito della nostra bocca dove la parola ha inizio e fine. Che cos’è simile alla tua Parola, nostro Signore, che è in sé permanenza senza invecchiare rinnovando ogni cosa?».
Un altro momento fondamentale è la svolta della teologia mistica cistercense, con Bernardo di Clairvaux, con Guglielmo di Saint-Thierry, e poi di quella vittorina. Qui il superamento del limite posto dalla trascendenza divina, che conduce all’«inconoscenza», è possibile grazie all’amore, che è l’essenza stessa dell’uomo. E poiché in noi l’amore è l’immagine più pura di Dio, esso comporta anche una reale conoscenza di lui: una «conoscenza amorosa», un «intellectus amoris». Sarà la «luce intellettual, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore» del Paradiso dantesco (XXX, 40-43). Così, indirizzato verso la sua origine, che è Dio, l’uomo, come scrive Guillaume di Saint-Thierry, è «deificato»: «L’unità di spirito con Dio, per l’uomo che ha il cuore rivolto verso l’alto, è perfezione della volontà, nel suo avanzare verso Dio, che si ha quando ormai non solo vuole ciò che vuole Dio, ma è così, non soltanto attratto da lui, ma totalmente da lui conquistato, da non poter volere se non ciò che vuole Dio. Ma volere ciò che Dio vuole significa essere ormai simili a Dio; non essere capaci di volere se non ciò che Dio vuole è essere ormai ciò che Dio è, lui per il quale volere ed essere sono la stessa cosa».
Ma, al di là dei momenti fondanti, in innumerevoli pagine del volume il lettore potrà cogliere esperienze estreme, immagini, emozioni. Come in Sinesio di Cirene: «Si portino sotterra le tracce dei serpenti, sotterra scenda anche il serpente alato, demone della materia, nube dell’anima, amico dei simulacri che contro le nostre preghiere aizza i suoi cani. Tu, Padre, tu, beato, codesti cani che divorano le anime respingili lontano dalla mia anima, dalla mia preghiera, dalla mia vita, dalle mie opere». In Simone il Nuovo Teologo: «L’albero, l’albero del timore, / è di nuovo senza fiore / e io mi rattristo e sospiro / e grido con fervore verso di te». In Gregorio di Narek: «Gloria terrificante, nome irraggiungibile, / appellazione di maestà, voce incontenibile, / essere imperscrutabile, / lontano inaccessibile e vicino immediabile. / O Padre delle tenerezze, / che fai sorgere la misericordia, Dio della consolazione». In Giovanni Scoto: «La voce dell’aquila spirituale risuona all’orecchio della Chiesa. Volti verso l’esterno, i sensi ne raccolgano il suono fuggevole, l’animo interiore ne penetri il significato immutabile. Voce del volatile delle solitudini, che vola non solo al di sopra dell’elemento fisico dell’aria, o dell’etere, o del limite stesso dell’universo sensibile nella sua totalità, ma arriva a trascendere ogni teoria, al di là di tutte le cose che sono e che non sono, con le ali veloci della più inaccessibile teologia, con gli sguardi della contemplazione più luminosa». In Iacopone: «Quanno iubel c’è aceso, / sì fa l’omo clamare; / lo cor d’amor è apreso, / che no ’l pò comportare; / stridenno el fa gridare / e non virgogna allore». In Caterina da Siena: «Annegatevi dunque nel sangue di Cristo crocifisso, e bagnatevi nel sangue, e inebriatevi del sangue, e saziatevi del sangue, e vestitevi di sangue. E se fuste fatto infedele, ribattezzatevi nel sangue; se il dimonio v’avesse offuscato l’occhio dell’intelletto, lavatevi l’occhio col sangue».
Il parlare in modo figurato svolge nel linguaggio dei mistici un ruolo decisivo. È questo un aspetto che Zambon, nell’Introduzione, illustra in modo molto felice e che i curatori delle sezioni tengono sempre presente. Si crea una nuova retorica che, nello sforzo di comunicare l’ineffabilità, nel momento stesso in cui confessa la sua inadeguatezza, il suo «balbettare», sfrutta splendidamente tutte le possibilità del linguaggio. Così Iacopone: «Quanno iubel se scalda, / sì fa l’omo cantare; / e la lengua barbaglia / non sa que se parlare…». Così, mirabilmente, Giovanni della Croce, quando evoca il parlare di Dio come «un no sé qué que quedan balbuciendo» («un non so che che vanno balbettando»). «Incastonando, con questa ripetizione dei tre “que” in un endecasillabo perfetto, una sorta di mimesi del balbettio – scrive Zambon – Giovanni in realtà rappresenta proprio il suo linguaggio poetico, che è solo un balbettio rispetto a ciò di cui vorrebbe parlare».