Attrice teatrale e cabarettista anglo-guyanese, Pauline Melville esordì nella narrativa nel 1990 con una raccolta di racconti intitolata Shape-shifter, a sottolineare la natura proteiforme della condizione della diaspora, il continuo «mutare forma» (shape shifting) non solo dei migranti, ma anche dei loro spazi di partenza e di approdo, insieme agli atteggiamenti di chi li circonda nei luoghi spesso ostili ai quali approdano.

Finora inedito nel nostro paese, questo lavoro appare ora in traduzione italiana, con un titolo, Uno di questi paesi è immaginario (Tamu, traduzione di Pietro Deandrea, pp. 266, €16,00), che mette l’accento sul particolare realismo magico di quasi tutte le storie, una sorta di «fantastico quotidiano» – direbbe Calvino – che scaturisce dalla difficoltà, per non dire impossibilità, di esistere tra due mondi, di far dialogare due (o più) realtà antitetiche.

La scelta di cambiare un titolo che, oggi, avrebbe potuto dar luogo a interpretazioni fuorvianti, è azzeccata: nei racconti di Melville, infatti, recupero folclorico e analisi sociopolitica si fondono in una visione immaginifica, a tratti fantasmatica e spesso metaforica, che rende perfettamente ragione di quella diffidenza nei confronti del reale che Rushdie individuava nei migranti, «persone radicate nelle idee piuttosto che nei luoghi, nei ricordi piuttosto che nelle cose materiali; (…) persone nel cui intimo avvengono strane fusioni, unioni mai viste tra ciò che erano e dove si vengono a trovare».

Persone che, dunque, «devono, necessariamente, stabilire una relazione immaginativa con il mondo». Nelle storie di Melville, l’atto di «re-immaginare il mondo» avviene tanto attraverso una ripresa di elementi tratti dal folclore locale (leggende di demoni e streghe, interventi di guaritori e rituali magici) quanto – e soprattutto – attribuendo a persone e oggetti una valenza ora prodigiosa ora stregata: se in Guyana una radio e un ferro da stiro possono farsi emblema dello status raggiunto da una donna di colore borghese e anglicizzata, a Londra gli abiti cuciti da una stilista sudafricana dall’apparenza stregonesca hanno potere di vita e di morte su chi li indossa.

Allo stesso modo, mentre nei Caraibi un conduttore radiofonico cerca di riguadagnare la fiducia di un corrotto uomo politico fingendosi la Diablesse che, nel folclore locale, attira i malcapitati a morire nella foresta, in Inghilterra un disoccupato scozzese ubriaco vive una sorta di discesa al cuore di tenebra della metropoli, nel profondo dell’underground, tra echi di mitologie celtiche, versi di Robert Burns e, da ultimo, una rivisitazione sottoproletaria del mito di Orfeo.

L’ultimo racconto della raccolta, «Mangia labba e bevi acqua di fiume», funziona da summa dei temi e dei modi narrativi di tutto il volume, raccontando su una traccia autobiografica un mixage di storia coloniale e postcoloniale, fantasia e violenza. Il fascino – e l’originalità – dei racconti di Melville sta proprio nella rappresentazione di una speranza, una visione o un’utopia che, da ultimo, si rivela sempre «sull’altra sponda».

Una stessa idealizzazione del mondo «altro» accomuna l’immigrata caraibica e l’insegnante inglese: se la prima, giudicando dall’apparenza le donne britanniche, finisce per perdere soldi, salute e dignità, la seconda, andata in Guyana per trovare materiali per le sue lezioni su inclusione e tolleranza, resta sconvolta dalla visione di un mendicante inglese, in un mondo degradato e indigente. In questo senso, il titolo che l’eccellente traduttore Pietro Deandrea ha scelto per la versione italiana rende bene il fatto che agli occhi di chi vive in equilibrio tra due paesi, uno dei due appare immaginario; ma non è dato comprendere quale.