Un giorno Apperbohr, «una massa che i secoli hanno plasmato a forma di cinghiale», aggirandosi nelle campagne tra Toscana e Umbria – gli zoccoli che scavano nella torba, le mele rubate e mangiate – si ritrova su una sua personale via di Damasco: la luce che lo abbaglia non lo redime ma lo precipita nel baratro del linguaggio. Perché il presentimento della lingua – la possibilità che i suoni significhino e che in ogni loro miscuglio ci sia l’ambizione (se non la tracotanza) di estrarre dal mondo qualcosa di comprensibile – non potrà che essere per lui gloria e tormento, ciò che suo malgrado lo separa da tutti, siano essi cinghiali o umani, costringendolo in un punto intermedio, a metà del guado, uno spazio-tempo minuscolo e insieme smisurato in cui non può stare nessuno se non lo stesso Apperbohr e la sua esperienza delle parole. A rendere ancora più struggente questa solitudine sarà l’innamoramento per una sua – ormai non più – simile («’Llhjoo-wrahh, amore mio’, è questo e solo questo che vorrebbe dirle»), il tempo in cui le parole «non hanno significato, sono distruttive, invadenti, sono il male che interviene a spiegare quello che è già tutto lì»; al posto delle parole c’è solo l’inadeguatezza, e l’unico senso che emerge è un’invocazione originaria e impronunciabile: «non mi lasciare solo».

Non sappiamo da quale polla dell’immaginazione di Giordano Meacci sia scaturito Apperbohr – personaggio epifanico di una tenerezza fiera, l’inscalfibile messo in scena nella sua maestosa vulnerabilità –, e non sappiamo in che modo, appena nato, questo cinghiale sia riuscito a fare irruzione nel capolavoro di John Ford del 1962 (un film in cui leggendario e reale si incrociano rivelando l’epica western nella sua costitutiva ambiguità) fino a incastonarsi nel suo titolo; non sappiamo neppure quale sia l’embrione di Corsignano, «addormentata e sola sulle colline da cui nasce», il piccolo centro apparentemente immoto in realtà febbrile dove si svolgono i fatti narrati, un frammento di provincia tra Toscana e Umbria (uno spazio corale che esiste con la stessa intensità di Winesburg e di Yoknapatawpha, di Macondo e di Brigadoon) – le c aspirate e gli armaioli, il corteo funebre e il derby contro l’A.S. Torracchio, il bar, le confidenze e i tradimenti, l’abitacolo in orgasmo di una Panda, le adolescenze timide e impetuose, i fantasmi etruschi: «tutti i riferimenti minimi e puntuali di cui sono fatte le vite di ogni paese dacché gli uomini esistono». Ciò che sappiamo è che Il cinghiale che uccise Liberty Valance, il romanzo d’esordio di Giordano Meacci – già autore della raccolta di racconti Tutto quello che posso e di Improvviso il Novecento. Pasolini professore – appena pubblicato da minimum fax, è un libro che non lascia scampo.

Nell’arco di quattrocentocinquanta pagine che smontano e riannodano tra loro una serie di vicende avvenute tra il 1999 e il 2000 (ma in realtà nel Cinghiale il tempo non se ne sta mai fermo – freme si inarca si comprime e si dilata come la sintassi che gli fa da scheletro), la scrittura di Meacci accumula una materia espressiva multiforme, dalle percezioni sensoriali («la parabola di graffio le frigge con l’intensità liminare delle bruciature improprie: le sfioràte di carta tagliente sul polpastrello, o i patimenti d’amore quando si è ragazzi») alle consapevolezze teologiche (per esempio a proposito del «Dio raccogliticcio che immaginiamo sul bordo dell’infinito, quasi fosse un inquilino del piano di sopra cui s’è smurato il soffitto») alle intuizioni su che cos’è l’anticipazione («può essere che ci sia qualcuno in grado di vedere prima – un segno labile nel tempo, un accento, un apostrofo luminoso, una particella di azoto, un coriandolo fucsia a passeggio per la ionosfera – il momento di passaggio tra un tempo e l’altro»), e in questo modo dà forma a una narrazione sbalorditiva fondata su un continuo irrefrenabile esondare (e se il rischio che corre è la dissipazione, ben venga, ma soprattutto grazie, perché il romanzo di Giordano Meacci rassicura sul fatto che esistono ancora immaginazioni letterarie per le quali tra il patrimonio e la sua dilapidazione non ci sono differenze).

Affetto da quella che Peirce chiamava semiosi illimitata – l’impulso a una significazione percussiva, il testo come luogo di rispondenze interne tra le parole, di vincoli, rime, allusioni, parentele – Meacci trasforma la sua patologia in una forma di splendore: osservando il progressivo fabbricarsi del linguaggio sotto la fronte del cinghiale, ci rendiamo conto che il romanzo è il luogo in cui si dà la parola a ogni fenomeno, anche al più negletto e infinitesimale, soprattutto al più negletto e infinitesimale (compresi i versi degli animali e i rumori delle cose); raccontare, del resto, vuol dire battezzare ancora nuove parole, ancora nuove particelle di realtà. Il tutto in una tonalità fastosa e assorta, seria e cialtrona, ribalda e commossa, tra il Decameron e le Beatitudini, il Tristram Shandy e il Cantico delle creature: in Meacci la furfanteria suprema di chi nel salto nasconde la mano che toccherà il pallone deviandolo in rete coesiste con l’estro di chi un attimo dopo, le nocche ancora rosse dell’urto contro la sfera, si inoltra in qualcosa che a calcio è guizzo dribbling serpentina e in letteratura è l’avventura della lingua, la luccicanza delle frasi, certi passaggi di punteggiatura prodigiosa, le parole che sciamano attraverso la pagina come stelle in una galassia.

Sulla falsariga di Robert Bresson, che nel 1966 aveva fatto dello sguardo di un asino il punto di vista tramite cui rivelare l’umano a se stesso (e non a caso Balthazar è il nome con il quale a un certo punto il cinghiale verrà battezzato), ciò che terminata la lettura del romanzo di Meacci resiste indelebile è il grifo cupo e misericordioso di Apperbohr che – cosciente dell’impossibilità di ogni linguaggio – ci guarda, e nei suoi occhi c’è quell’unico infinito rimpianto che domina Il cinghiale che uccise Liberty Valance: «Se si potesse dire amore in cinghialese: se si potesse dire amore in qualsiasi lingua».