Uscito malconcio dall’emanazione del suo primo decreto sul terremoto, bastonato da Mattarella che l’ha firmato solo con riserva, il governo gialloverde nei prossimi giorni dovrà trovare la quadra sul nuovo commissario alla ricostruzione. Il mandato di Paola De Micheli (Pd) scadrà a inizio settembre, e già si registra una coda piuttosto lunga per la sua successione.

Il nome che più ricorre è quello di Giuliano Pazzaglini, ex sindaco di Visso e senatore della Lega, che dalla sua ha un consenso mostruoso nel maceratese e una raccolta di firme online arrivata a centinaia di adesioni. Il suo nome circola da un po’, ma i primi a storcere il naso sono i quasi amici di Forza Italia. Il senatore Andrea Cangini, eletto anche lui nelle Marche, è stato il primo a mettere sul chi va là i leghisti: «Pazzaglini dovrebbe dimettersi per aver deluso i terremotati a causa del suo silenzio sui temi del sisma». Una bordata che non lascia presagire nulla di amichevole per quella che sarà la trattativa sul commissariato alla ricostruzione. Pazzaglini, comunque, ha offerto una risposta sprezzante («Cangini non sa nulla di questo territorio, è un paracadutato che fa speculazioni per provare a resuscitare Forza Italia») e conserva ancora i favori del pronostico.

Alle sue spalle, però, si agitano anche quelli del Movimento Cinque Stelle, che hanno almeno due nomi buoni per lo stesso ruolo: quello dello jesino Mauro Coltorti (che a un certo punto sembrava dover diventare ministro delle Infrastrutture) e quello della deputata di Fabriano Patrizia Terzoni.

Negli ambienti del Pd, forse più per vana speranza che per realtà politica, vedono una situazione del tutto diversa e ipotizzano addirittura un reincarico a De Micheli, che ha un buon rapporto con i sindaci del territorio e sta effettivamente mettendo ordine nel mare delle ordinanze. L’ultima ipotesi, già vagheggiata un anno fa, prevede l’abolizione della figura del commissario e la spartizione delle funzione tra i presidenti delle quattro regioni coinvolte.

In effetti, il commissario in questi due anni di doposisma è apparsa a più riprese come una figura superflua: governo, protezione civile, regioni e comuni sono una fanfara che ha lasciato poco spazio sia a Errani sia a De Micheli. Che di fatto non hanno mai potuto commissariare nulla e spesso sono apparsi come dei parafulmini: quando c’è un problema la colpa è del commissario, quando si fa una cosa giusta il merito è sempre di qualcun altro. Il punto è che in due anni il fronte istituzionale non è mai stato stabile: si sono succeduti infatti tre governi, due commissari e due capi della protezione civile, e ciascuno ha cambiato le carte in tavola rispetto a quello che c’era prima.

Questa è anche la principale differenza tra la gestione delle vicende di L’Aquila e quella dell’Appennino: tanto è stata accentratrice la prima (con tutto il potere all’allora capo della protezione civile Guido Bertolaso) quanto appare spezzettata e incerta la seconda, dove non si capisce chi sia a comandare e ogni decisione è un calvario di pratiche, documenti e discussioni sulle competenze dell’uno o dell’altro ente.