Aharon Appelfeld, tra i più grandi scrittori israeliani, è morto nelle prime ore di ieri, 4 gennaio, all’età di 85 anni. Sopravvissuto alla Shoah e immigrato in Palestina nel 1946, fu allievo e amico di Martin Buber e Gershom Scholem, grazie ai quali si accostò alle fonti dello chassidismo, alla Torah e alla Kabbalah, che interrogò e percorse attraverso l’esperienza abissale dello sterminio.
Appelfeld ci lascia un mondo letterario abitato da creature lunari, indissolubile dalla città della Bucovina del Nord dove nacque il 16 febbraio del 1932 e dove, a otto anni, vide le SS uccidere la madre e i nonni. Czernowitz, appartenuta per più di un secolo all’impero austroungarico, è un’origine cancellata, insieme alla famiglia, allo yiddish e alle stesse coordinate geografiche di quella che allora era Romania, ed è al tempo stesso il luogo dove tutto sarebbe rimasto cristallizzato nello sguardo del bambino, cifra della sua scrittura limpida, nemica di ogni astrazione.

É LO SGUARDO di una creatura sola, abitata dal terrore e dall’incomprensione, deportata in un campo di concentramento della Transnistria dopo una lunga marcia a piedi attraverso l’Ucraina, fuggita scavando la terra sotto il recinto del lager, come un animaletto, vissuta nei boschi cercando scampo dalle belve e dagli uomini, ferocemente consapevole che la propria appartenenza ebraica avrebbe comportato una condanna a morte. Ma è anche lo sguardo di chi ha trovato riparo nella casa di una prostituta, ha vissuto con una banda di briganti, ha stabilito legami sotterranei con gli animali e con gli alberi, ha imparato a riconoscere la nobiltà degli ultimi. Lo stesso sguardo che sarebbe rimasto impigliato nel suo volto tondo dai grandi occhi mobili, sorridenti e indagatori.
Il suo percorso verso la scrittura fu doloroso e accidentato. Quando Appelfeld, profugo quattordicenne, giunse in Israele con una nave dell’immigrazione ebraica clandestina, dovette sforzarsi di dimenticare, non diversamente dagli altri sopravvissuti venuti dall’Europa, bollati come vittime imbelli nella costruzione di una retorica eroica del nuovo Stato. «Cenere d’uomini», li avrebbe chiamati Ben Gurion. D’altra parte, sentiva che la sofferenza inflitta agli ebrei era talmente spropositata e inaudita da non poter trovare posto in un racconto individuale.

Occorreva trovare una strada tra silenzio e testimonianza che lo riportasse nei boschi in cui aveva vissuto nascosto, che gli restituisse le voci della comunità massacrata. «All’inizio furono solo i nomi dei miei cari, scritti su un pezzo di cartone», disse in una conversazione di sette anni fa («Cosa fare del male che si è guardato in faccia?», in Il paradosso del testimone, a cura di D. Padoan, «Rivista di estetica», ndr).
«Lavoravo la terra, in un kibbutz, e una sera in cui avevo l’anima oppressa dai ricordi, nonostante tutto attorno a me ripetesse l’ingiunzione di dimenticare, mi sedetti e scrissi i nomi di mia madre e di mio padre, dei miei nonni, degli zii, dei cugini. Volevo quasi accertarmi, nel rendere i loro nomi tangibili, che fossero davvero esistiti, che la mia casa d’infanzia non fosse un sogno. E il miracolo della scrittura fu tale che, tracciando i loro nomi, li riportai alla vita. D’improvviso mi stavano di fronte, come li ricordavo quando ero nei boschi; avevo una famiglia, non ero più un orfano».

CI VOLLE DEL TEMPO perché Appelfeld potesse accostarsi al magma che sentiva stratificato in sé, fatto delle morti di centinaia, migliaia di persone. Immagini atroci di fronte alle quali le parole erano fragili e impotenti. Per Appelfeld, convinto che la buona arte debba essere intima e universale, era il silenzio imparato dai mistici a dover proteggere la parola scritta, perché potesse contenere l’esperienza individuale e collettiva. Nei suoi romanzi, con passo piano, discreto, ha restituito un luogo non solo alla famiglia perduta, ma agli abitanti di tutti gli shtetl disseminati in Polonia, Lituania, Galizia, Ucraina, Bessarabia e Bucovina, deportati e cancellati dal mondo.
Il popolo della Torah, dal quale i genitori, colti e assimilati, avevano preso distanza, divenne poco per volta la sua famiglia. É forse in Notte dopo notte e in L’amore, d’improvviso (entrambi editi da Guanda) che si ritrovano i suoi temi più cari: la morsa della solitudine, la ferocia del ricordo e la tentazione dell’oblio, la ferita della lingua esiliata, la necessità di un abbraccio che riporti alla comune appartenenza non determinata dalla casualità della nascita ma dalla scelta.

IL FULCRO della sua riflessione, condensata nelle tre lezioni sulla Shoah tenute nel 1991 alla Columbia University di New York e raccolte nel volume Oltre la disperazione, edito da Guanda, è una domanda assillante: cosa fare di un’infanzia trascorsa dentro la Shoah? Cosa fare del male che sì è guardato in faccia? Come spiegare la necessità del ricordo del male? Come traslare quella terribile esperienza dalla categoria della storia a quella dell’arte?
«Ogni sopravvissuto conserva nella propria mente migliaia di immagini di ciò che ha vissuto, di violenza, di morte, e ogni notte viene visitato da ricordi insopportabili. Ciascuno di noi si è posto il problema di cosa fare di questi ricordi: fissarli? assumerli? identificarsi con essi? tentare di conservare il volto degli assassini per odiarli? Dimenticare è una necessità che sta nell’ordine del vivere.
Non c’è di che stupirsi se gli scampati hanno raccontato ai figli ben poco di ciò che hanno passato. Cosa avrebbero avuto, da raccontare? Orrore, e ancora orrore. Si apprende a vivere senza ricordi, proprio come si impara a vivere con una menomazione. Dormire per anni, dimenticare se stessi, nascere un’altra volta: questo si sarebbe voluto. Eppure, senza quelle immagini saremmo nulla. Noi sopravvissuti dobbiamo trovare un equilibrio autentico tra il non contemplare il male, non farne qualcosa di permanente, e portare la responsabilità di ciò che abbiamo visto».

LA RESPONSABILITÀ delle immagini della tenebra è stato l’assillo di una vita, per Appelfeld. «Ho scritto più di quaranta libri per dire qualcosa di questa esperienza, perché, per quanto terribile possa essere stata, è qualcosa che si può condividere, è qualcosa che le persone possono capire. Hai visto il male, hai visto tutte le forme del male, per questo devi rivolgerti alle persone. Perché le persone dovrebbero avere una nozione di ciò che il male è; dovrebbero averne una qualche comprensione».
Così come dovrebbero avere una nozione del fatto che, di fronte al male, è possibile rimanere umani. «Questo non va mai dimenticato, quando si insegna cosa è stato l’Olocausto: si può fare esperienza del male, di un terribile male, ma non identificare se stessi con questo male; non diventare male a propria volta. È molto importante, perché non c’è dubbio che il male può maledirti, può costringerti a seguire il suo passo».
Non sono un predicatore, ripeteva Appelfeld, né un filosofo, «ma attraverso la mia scrittura cerco di dire qualcosa sulla sofferenza, sull’amore, sulla pietà, sull’intimità. Per il semplice motivo che gli uomini dovrebbero diventare esseri umani; non di più, ma non di meno. Non possiamo essere angeli, non possiamo essere Dio, possiamo al massimo essere degli esseri umani, e dobbiamo essere degli esseri umani».