Con quei cappottoni di «casentino» arancione fra il glamour e il blasé e quelle vestaglie dannunziane così deliziosamente biedermeier, Sandro Lombardi e Massimo Verdastro sono i servitori e i guerriglieri di un nuovo «teatro di parole»: post-esistenziale e post-beckettiano, anti-retorico e anti-mattatoriale, solido e terremotato insieme.

Complice dell’operazione, con la sua abrasiva narrativa, il suo rimuginare sui difettosi meccanismi dell’arte e della vita, è l’austriaco Thomas Bernhard, drammaturgo romanziere di fiera tempra polemica, la più implacabile scheggia impazzita fuoruscita dal cuore malato dell’Europa postbellica, di cui Federico Tiezzi ha ripreso, a 15 anni di distanza (già Premio Ubu miglior regia), e con gli stessi interpreti, L’apparenza inganna. Recuperando anche, nel teatro Manzoni di Pistoia che lo produce, e dove ha debuttato, l’originale soluzione scenica binaria pensata per il festival di Santarcangelo: due diversi luoghi, una camera verde e una camera oscura, due spazi luminosi e soffusi, ingombri di ricordi e di cimeli, abiti scarpe foto mobili oggetti, tutte boe di un passato da palcoscenico e di un benessere illusorio.

E dove si consuma l’esistenza di due fratelli, Karl il giocoliere che faceva roteate 21 piatti per volta, e Robert l’attore che al Bugtheater ha recitato il Tasso di Goethe, entrambi vecchi ormai, entrambi soli, vedovi della stessa donna, Mathilde, che ha sposato Karl ma ha lasciato in eredità la casetta di campagna a Robert, il cognato amante.

Metodici, consapevoli di un legame che non ha niente di «importante» da dirsi ormai, e che forse non l’ha mai avuto, refrattari al conflitto e lucidi nell’appagamento del superfluo, ogni settimana di martedì e di giovedì, Karl e Robert, il martedì a casa dell’uno, il giovedì a casa dell’altro, si scambiano diligenti, quanto enigmatiche, visite di cortesia. Bernhard scrisse L’apparenza inganna nel 1983 con la mente rivolta a Bernhard Minetti, l’attore omaggiato in prima persona nel 1977 dall’omonima pièce.

Lo schema prosa-teatro è centrale nel suo lavoro di drammaturgo. E maniacale l’attenzione al dirsi e al non dirsi degli attori come esercizio, psicotico e grottesco, alla sopravvivenza. La giostra di Karl e Robert che si parlano in silenzio senza spiegarsi, ciascuno chiuso nel suo guscio di memorabilia e risentimenti, angosce e sgomenti, giusto alla fine l’irritazione di Karl per quel lascito della moglie al fratello (ma è un congedo minimalista, quasi insensibile, come limarsi le unghie dei piedi, un’uscita di scena che non promette tempeste né annuncia ribaltamenti di ruoli) è un girotondo di prospettive lanciate sul nulla, un pulviscolo di insofferenza e frustrazione che sciamano nella claustrofobica liquidità di un pensiero che non sa allontanarsi al di là di quelle quattro mura domestiche.

A meno di non diventare solo buffo e patetico. Da vecchi lamentosi pensionati della vita. «Ci siamo meritati la pensione abbiamo lavorato sodo perfezione suprema» annuncia Karl all’inizio. Resta il cartiglio di tutta la pièce. Fino alla dipartita finale. Al momento non sono previste repliche. Se non stasera alle 21 e domani alle 17 nelle sale del castello Pasquini di Castiglioncello. Peccato.