Dopo due ponderose ricerche di taglio storico-culturale – La nascita del modernismo italiano (Quodlibet, 2018) e Cultura di destra e società di massa (Nottetempo, 2022) – Mimmo Cangiano ci consegna, non solo per le dimensioni ridotte, un saggio di esplicita natura militante e di intervento schiettamente politico. Guerre culturali e neoliberismo (Nottetempo, pp. 192, euro 17,00) non è semplicemente un pamphlet occasionale, dettato da una contingenza ristretta. È sia una ricostruzione attenta di quella galassia culturale che, con gergo accademico, abbiamo imparato a chiamare Studies, sia una demistificazione in chiave materialistica di un’intera cornice di pensiero, in larga parte afferente alla teoria culturale postmoderna, che l’autore ha esplorato con acribia (ed esperito personalmente, se è vero che l’autore mette in gioco anche una componente autobiografica, legata alla sua esperienza di ricercatore precario negli Stati Uniti).

COME CHIARISCONO le prime pagine, l’intento del libro è duplice. Da un lato, storicizzare l’universo delle culture wars – che oggi conosciamo con termini troppo spesso semplificativi come woke, cancel culture, politically correct e via dicendo – mostrandone le determinazioni a un tempo sociali e teoriche, per evidenziarne la loro riconoscibile stabilizzazione categoriale e terminologica, ossia la riconversione in alfabeto culturale condiviso e tranquillizzante (a uso e consumo degli intellettuali e dell’opinione pubblica, insomma); da un altro, politicizzare il «culturalismo» per comprenderne i limiti e l’adesione ideologica al capitalismo contemporaneo, senza tralasciarne tuttavia i meriti – l’aver restituito, ad esempio, una centralità al momento «sovrastrutturale» nella costruzione di un’egemonia, usando una terminologia gramsciana che è prossima agli intendimenti di Cangiano –, e anzi al fine di potenziarne materialisticamente il contributo, insistendo sulla necessità di un’autocomprensione e di una verifica permanente delle istanze (ossia del proprio posizionamento sullo scacchiere sociale). Questa doppia finalità è condotta con grande padronanza dallo studioso, al punto da dire che la demistificazione della postura culturalista trovi in queste pagine uno dei migliori esempi (almeno nel nostro panorama nazionale, che peraltro Cangiano riesce a relativizzare presentandoci testi, documenti e dibattiti da noi pressoché sconosciuti).

LA TESI di Guerre culturali e neoliberismo è del resto smaccatamente dialettica e materialistica. Lo scivolamento culturalistico della teoria, dovuto all’egemonia conseguita dalla Theory e alla sua messa in opera da parte degli Studies, ha prodotto il rischio – che in molti casi è già un’evidenza – di un «particolarismo militante» che appunto si trincera dietro restrizioni ontologiche, producendo, su base sociale e politica, una «balcanizzazione dei subalterni su base identitaria» e una loro reificazione (o sovraesposizione nullificante) sul piano della cultura. Cangiano segue la critica del paradigma vittimario proposta da Daniele Giglioli e legge tale processo di frammentazione come l’esito antimaterialistico e destoricizzante di un «essenzialismo di ritorno» (espressione felice, che riassume bene il pensiero di Cangiano, e che mi sembra il risultato teorico decisivo del libro).

LA CARTINA AL TORNASOLE del ragionamento è costituita dall’inefficacia politica del culturalismo. Se quest’ultimo si fonda su una naturalizzazione dei rapporti sociali – risultato del summenzionato particolarismo – ne consegue che la sua riconoscibilità teorica sarà legata al tentativo di costruire, appunto solo su base culturale, sempre più differenti «identità-altre», pensabili perché «esterne» e scisse dal movimento storico. La cui marginalità destoricizzata si oppone a un’altra supposta essenza, quella capitalistica, concepita appunto come monologica e universale, in qualche modo statica e sempre uguale a se stessa, contro la quale concepirsi appunto sempre come altri e diversi. Cangiano dimostra molto chiaramente le antinomie di tale anticapitalismo di maniera, che legge «l’azione del capitale in una singola modalità di manifestazione ideologica», non permettendo di vederne l’operatività su più piani culturali, sociali e politici. Non solo: tale essenzialismo non permette alla teoria di concepirsi come attraversata dalle istanze di profitto del capitalismo. Per questo, ci dice Cangiano, la prospettiva culturalista, profondamente antidialettica, salva se stessa essenzializzando l’oggetto di analisi e pensandolo altro persino dagli stessi strumenti teorici. Senza una storicizzazione materialistica, egli conclude, gli intellettuali restano intrappolati nei loro alfabeti e si trasformano, dietro l’apparente antagonismo, in manutentori delle logiche capitalistiche.