Si sa che all’ambientalismo piacciono i termini apocalittici. Eppure, leggendo i saggi inclusi nel volume Antroposcenari. Storie, paesaggi, ecologie a cura di Daniela Fargione e Carmen Concilio, pubblicato da Il Mulino, facendo i conti sia con disquisizioni scientifiche quanto con l’anelito umanista di poeti e pensatori che riflettono sull’impatto che le attività umane hanno avuto e continuano a manifestare sull’ambiente, ossia sui paesaggi e sulle altre forme di vita, non resta granché da illudersi. Come scrive il metereologo Luca Mercalli, in postfazione: «non siamo ancora sul bordo del baratro ma poco ci manca, e dobbiamo cercare delle uscite di emergenza non convenzionali, inventarci percorsi alternativi su strade non segnate e più impervie. Ci siamo in sostanza spinti troppo in là dei territori sicuri per l’umanità, i cosiddetti “confini planetari” oltre i quali la biosfera rischia di non essere più in grado di sostenere la nostra vita».

Ok, il baratro, la fine del mondo, la fine dell’umanità: ma come, quanti decenni sono che sentiamo ripetere gli stessi avvertimenti, triti e ritriti? Non sarà invece vero, come sostengono altri scienziati, politici, opinionisti che il mondo è troppo grande per essere influenzato dalle nostre azioni? Non ci sono già state precedenti estinzioni di massa? Allora partiamo dal principio, ossia dal termine da cui nasce il volume: Antropocene. Si tratta di un neologismo coniato dal biologo Eugene Stoermer e dal premio Nobel Paul J. Crutzen nel 2000, per «riferirsi a quest’epoca geologica in cui l’ambiente terrestre, inteso come l’insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si crea ed evolve la vita, è profondamente condizionato dagli effetti dell’azione umana», scrive la Fargione nell’introduzione, o come ribadisce Serenella Iovino, in prefazione, «una sola specie vivente – la nostra, in greco anthropos – è diventata una forza geologica», tanto che per la prima volta nella storia del pianeta «pratiche sociali sono entrate a far parte della stratigrafia, iscrivendosi nelle rocce e condizionando la capacità portante della Terra». Ora, che l’umanità abbia in buona misura ridisegnato la superficie del pianeta è sotto gli occhi di chiunque, scettico, ecocritico o agnostico. I nostri paesaggi agrari e urbani sono figli della mano dell’uomo, così come nel corso dei secoli sono stati coltivati molti dei nostri boschi, quantomeno in Europa. Addirittura parte di quel piccolo mondo antico che abbiamo imparato a preservare, in circa due secoli di impegno e campagne di sensibilizzazione, e che chiamiamo “natura”, ha matrici umane che si potrebbero discutere. Ma quanto tutto questo ha modificato i tempi del pianeta? I saggi inclusi nel volume danno una risposta che è chiarissima, avanzando in quella pratica che da più parti oramai preme affinché i temi ambientali ed ecologici vangano considerati temi universali, planetari, non soltanto accademici e scientifici, poiché al centro c’è l’amore per il pianeta stesso, per la vita, il rispetto per ogni forma di esistenza.

Antroposcenari si articola in tre parti: la prima è dedicata a «discorsi e narrazioni» – consiglio ad esempio Narrare il paesaggio della perdita di Antonella Tarpino, la seconda è vocata alle «ecologie culturali» – l’ecolirica del poeta irlandese Derek Mahon secondo Irene De Angelis o il pensiero ecocritico nel nuovo cinema italiano di Alberto Baracco, la terza a «cibo e migrazioni» che abbraccia, ad esempio, Il frigorifero come antroposcenario di Carmen Concilio e l’interessantissimo Antroposcenari nel Pacifico di Paola della Valle, che ci ricorda grazie alla scoperta di voci della nuova letteratura oceanica, quanto il Pacifico sia diventato «un laboratorio dove si stanno già sperimentando i peggiori effetti dei cambiamenti climatici», curiosamente proprio là dove ancora saremmo portati a pensare che persista l’ultimo bagliore di paradiso terrestre.