Che cosa dovrebbe toccare un certo modo di pensare e fare teatro che definiamo profondo se non le corde nervose dell’individuo e quindi mettere in crisi il senso o forse i sensi stessi?
Anelante, l’ultima prova di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, nel rinnovare certi aspetti del loro linguaggio teatrale – è sempre lei l’artefice delle «scenografie organiche», è sempre lui il corpo-pungolo in scena, ma questa volta ci sono innovazioni visive più spiazzanti e la presenza di corpi altri si è moltiplicata e radicalizzata – si rivela fin da subito una esperienza di una violenza comica in una estensione sempre più sottile e profonda.
L’azione scenica tocca una serie di temi. Si può provare a elencarne i più visibili nella loro addizione: la matematica, la famiglia, la politica, la psicanalisi, il sesso, la morte, la fine/origine. Sono temi messi in relazione su diversi piani e alcuni di questi, ipotizziamo, leggibili con una possibile funzione – proviamo a suggerire: la matematica come un sorta di «significante impazzito», con tutte le conseguenze del caso (l’incomprensibile bellezza di una precisa idea di forma); la politica e il sesso come «postulati fatali» del gioco dei corpi in scena, con la morte rigoroso corollario (la comprensibile agonia delle forme di qualsiasi idea). Come anticipato, a tutto questo vanno poi aggiunti famiglia e psicanalisi – si percepiscono alla maniera di un leitmotiv in tutto Anelante – assieme a quanto esemplificato dalla sequenza finale che, per comodità, potremmo definire il punto di vista, o punto di fuga, di Mastrella e Rezza dentro il mondo (visibile). In merito, vale la pena ritornare alla violenza comica menzionata, e una indicazione di lettura può essere suggerita da uno dei due significati del verbo anelare a cui il titolo rimanda – dall’enciclopedia Treccani in rete: respirare affannosamente, ansare \[…\]. Nell’uso poet., anche trans., esalare, mandar fuori \[…\]. Con uso sostantivato, respiro anelante.
Una condizione d’«eccezione» che però in questo caso vale come una sorta di principio di poetica.
Ora, da sempre, i nostri si scagliano in modo dialettico contro certi «luoghi comuni» della realtà, e non è la prima volta che la famiglia è sotto bersaglio nella loro produzione artistica. Qui però la questione – a nostro avviso – si fa più sofisticata e letteralmente intima. Che cos’è infatti il luogo familiare se non la prima comunità-società in cui si relaziona un individuo e dove, perciò, «si individua» per la prima volta il limite tra, in un certo senso, privato e pubblico? E su questo spazio, come si sa, la psicanalisi ha spesso dettato uno dei propri temi principali, se non addirittura il proprio tema principale, cioè la proiezione e significazione dell’interiorità.
Come dire: dall’interno all’esterno.
A partire da questa considerazione si può dire che in Anelante, invece, si assiste allo sforzo di un movimento contrario che non si ferma a questo o quel momento, ma sembra coinvolgere tutta l’operazione. È il doppio movimento di una «scrittura di scena» che ci pare catturare l’energia dei corpi e quindi il corpo – quello centrale di Rezza, quello ideale dell’uomo – e, da un lato, far emergere stati di tensione-derisione in cui la comicità allontana la parola-logos e scava nelle relazioni plastiche e simboliche delle figure in azione, per separarle, degradarle, alienarle, mentre dall’altro lato le trascina alla fine, verso una tendenziale immobilità e astrazione, verso il buio.
Come dire: dall’esterno all’interno.
Qui, la sequenza finale. «In apnea», l’anelare del ritmo si fa ritorno – comico – verso una impossibile fine che sa di origine, senza altro. Una agonia diventata riguadagnata solitudine?
È, intanto, una rivelazione, la tentazione di andare oltre la forma.
Si vedono delle luci nel buio, il corpo si spegne, la voce continua…
Una scena antropologica
È noto ma val la pena ripeterlo: che cosa potrebbe offrire un certo teatro che definiamo profondo se non la concreta possibilità di un altrove, e cioè di far accadere – qui, ora – un rito o, comunque, ritrovarne la traccia?
A conti fatti, fare esperienza di uno spettacolo come Anelante può appunto suggerire come Mastrella e Rezza abbiano a modo loro sviluppato una comprensione più antropologica del teatro – con una premessa per chi ha poca dimestichezza con l’antropologia, e cioè che ci sono diversi piani di interpretazione di un rito e che spesso ci si trova a osservarne i meccanismi in campi diversi, con diversi strumenti e diversi risultati.
Detto questo, proviamo a delineare il «quadro» in merito.
L’azione scenica contempla, come sempre, una scenografia mobile e abitabile, materia in atto e segni in potenza. Mastrella gioca in sottrazione: le scelte cromatiche sono su tonalità che ci sono sembrate più fredde del solito; le linee visive presenti – decorazioni, invenzioni – sono sempre di grande eleganza; gli oggetti di scena, invece, presenze di notevole forza simbolica. È in questa cornice che i corpi si muovono e tra questi, centrale, quello di Rezza. A terra – fin dall’inizio – per poi lanciarsi, slanciarsi e ricadere a terra di nuovo in immagini teatrali che lo restituiscono disarticolato grazie, anche, all’«amplificazione» gestuale e visiva data dalle presenza degli altri corpi in scena, corpi sui quali agisce come guida e quindi, anche, come carnefice e vittima – di volta in volta la massa delle altre presenze in scena potrà per esempio rappresentare la politica, simboleggiare la famiglia, essere una comunità (ricordiamo però i nomi reali di questi corpi: Ivan Bellavista; Manolo Muoio; Chiara A. Perrini; Enzo Di Norscia). Ora, nel montaggio di tali passaggi Anelante sembra delineare una trama di esperienze che, come detto, «provano» il soggetto (l’affanno comico) e che però si può allo stesso tempo tradurre come prova per l’individuo stesso – da qui, come indicazione, il secondo significato del verbo anelare: fig. Aspirare ardentemente a qualche cosa.
Quindi: quale aspirazione qui?
L’ipotesi potrebbe essere la seguente: attraverso lo sviluppo di una azione particolare, l’aspirazione di Anelante sembrerebbe quella di indicare una sorta di surreale apoteosi possibile alla fine, ma solo dopo aver chiuso i conti, come dire, con tutte le manifestazioni possibili dell’altro, Dio compreso – per questo nella sequenza finale i nostri «palombari dell’inconsapevole» (la bella definizione è proprio in Anelante) optano per un particolare habitat…
Ora, in merito al primo punto, lo sviluppo dell’azione sembrerebbe mostrare una struttura molto assimilabile allo schema base dei riti di passaggio tanto studiati e teorizzati da certa antropologia – due nomi su tutti, A. Van Gennep e V. Turner. Sono riti le cui fasi, in sintesi, possono essere così definite: separazione, transizione, nuova integrazione. E, attraverso queste, la trasformazione del soggetto. Qui allora, nello specifico, perché non leggere quest’ultimo lavoro di Mastrella e Rezza proprio come una sorta di iniziazione all’uscita dall’individuo da qualsiasi idea di comunità, dove la trasformazione è quella che investe la scena alla fine – spariscono i corpi, il buio accoglie solo le luci e la voce – e la nuova integrazione è quella che arriva conseguentemente a coinvolgere lo stesso spettatore, condotto altrove assieme alle stesse presenze sulla scena?
In merito al secondo punto, il riferimento all’«apoteosi» non può che rimandare alla dialettica tra apoteosi e derisione di J. Grotowski, il grande regista e teorico del teatro antropologico.
In questo caso la suggestione vale come indicazione per riflessioni future. Ma intanto si può dire che Rezza – performer puro, anche in senso grotowskiano – sembra aver trovato proprio in Anelante una sintesi efficace tra questi due estremi.
E dunque: la sua degradazione, la sua esaltazione.