Dice Antonio Latella di essere affascinato dal rapporto con la tradizione piuttosto che (strettamente) da Goldoni, a proposito di questo suo Servitore di due padroni che qualche sconcerto e dissenso ha prodotto al Goldoni di Venezia, inteso come teatro (lo stabile veneto diretto da Alessandro Gassmann è coproduttore dello spettacolo insieme a Ert e Metastasio di Prato). Ma a quale tradizione dobbiamo pensare? La commedia goldoniana si presta certamente a un discorso sulla tradizione del teatro italiano, se si crede che il contemporaneo non possa prescindere da una memoria da portare alla luce. Qui però la tradizione è almeno duplice, a quella originaria dei comici dell’arte si sovrappone, forse con ancora maggiore evidenza, quella novecentesca che ha fatto del Servitore il paradigma del teatro di Strehler, che è come dire della prima regia in Italia. E non vi è dubbio che Latella l’abbia bene in mente, tanto da innestare nello spettacolo una replica del «famoso lazzo della mosca nella versione del signor Marcello Moretti», l’attore che ne fu il primo interprete: prende quella scena, l’Arlecchino di Roberto Latini, e la scompone analiticamente nei singoli gesti, ne ripete la sequenza intera, la reitera più volte in maniera sempre più frenetica e scomposta, fino alla sua consunzione. Che sia questo il punto di arrivo dello spettacolo? Una sorta di pasto sacro in cui l’interprete si ciba del suo modello, in parole colte una teofagia, «mangiare Goldoni»…

Ma conviene tornare al principio, alla sala d’albergo dove Latella fa muovere i personaggi, che della commedia goldoniana hanno conservato i nomi ma non le maschere. Un luogo dall’aria non proprio aggiornata all’estetica dell’hotel boutique. Pareti bicolori lungo su cui stanno allineate delle sedie. Illuminazione fioca. Uno schermo televisivo tristemente acceso. Una cameriera esotica passa l’aspirapolvere e gira con il carrello della biancheria fra le quattro porte delle camere che si aprono simmetriche sui lati, ovviamente funzionali al teatrale gioco delle entrate e delle uscite.

Gente che va e gente che viene e infatti sul fondo, al centro, la bocca metallica dell’ascensore si apre su un altrove insondabile, riverberando suoni e luci nell’ambiente. Dove un maître o direttore, Brighella insomma, corre avanti e indietro dall’uno all’altro ospite o si attacca a un citofono per comunicare alla platea le didascalie del testo, mentre intanto va canticchiando di continuo: ma che bontà ma che bontà ma che cos’è questa robina qua, come Mina tanti anni fa però senza arrivare alla medesima conclusione.

Di Arlecchino si vedono da principio solo i piedi che spuntano da dietro un angolo. Ma è poi Arlecchino questa caprioleggiante figura vestita di bianco? Intanto il suo nome sarebbe Truffaldino, anche il ricorso alla dizione più popolare e riconoscibile è un lascito strehleriano. E se è vero che Arlecchino è il nostro Amleto, qui contempliamo un Arlecchino di meno, un Arlecchi-no come lui stesso si presenta, calcando forte sulla negazione. Il tema dell’identità è del resto alla base del Servitore di due padroni già a partire dal livello elementare della trama, il travestimento di Beatrice nei panni maschili del fratello Federigo. Eccola infatti, Federica Fracassi, con un vistoso paio di baffi ma senza rinunciare all’abito femminile e a un paio di scarpette rosse che suggeriscono qualche diavoleria, una strana insomma che giustifica i sospetti incestuosi sparsi a piene mani dalla regia. E gli altri seguono, con una certa qual confusione stilistica, per così dire, che fa il paio con una crescente incontenibie disinvoltura sessuale. Se Arlecchino esce con i calzoni calati dalla stanza di Florindo, che ufficialmente sarebbe l’amante di Beatrice, quest’ultima ci prende gusto con Clarice, la promessa sposa del fratello così legnosa da principio, nel momento in cui deve farle toccar con mano che dietro quei baffi posticci sta un corpo femminile, cosa di cui per altro non sarà poi possibile dubitare.

Ma l’operazione voluta da Latella non va nella direzione di una mera attualizzazione del testo, riscritto a misura da Ken Ponzio rinunciando alla lingua veneta. Il regista vorrebbe darci la commedia e la sua critica, le luci di proscenio del teatro all’antica italiana e la decostruzione della fabula. Questo ci dice il ricorso esasperato all’elemento metateatrale, come se questi attori in cerca di personaggi (e ricordiamo fra gli altri l’affannato locandiere Massimiliano Speziani, la Clarice liberata di Elisabetta Valgoi, Giovanni Franzoni e Lucia Peraza Rios che fanno Pantalone e Smeraldina) non potessero dimenticare di aver letto Beckett e Heiner Müller. A un certo punto gli attori cominciano a smontare la scenografia, pezzo per pezzo, fino a lasciare in vista la nuda struttura del teatro. Ricominciamo, dicono. Ma la commedia ormai non c’è più, le sue convenzioni sono andate in pezzi e i suoi lazzi sono appunto materiale da esame autoptico. E cresce il dubbio che altra sia la tradizione di cui qui si va in cerca, né la commedia dell’arte né la regia strehleriana ma la dissipata scrittura scenica della nostra bella avanguardia di qualche decennio fa.