Il culto dell’ego, una potente dose di narcisismo, aggressività, cinismo: sfogliando le pagine delle non poche pubblicazioni oggi dedicate a come diventare artisti, non di rado a firma di illustri critici e curatori, si ha la sensazione che tra le righe affiori la raccomandazione a tramutare quei vizi in virtù. Antonio Freiles, scomparso a causa del Covid-19 lo scorso 28 luglio, è stato uno dei non pochi uomini d’arte e di cultura che rischiano di passare inosservati proprio perché lontani da certa forma mentis. Praticava l’arte in quanto espressione di pensiero e veicolo di cultura.

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AMAVA LA CARTA, quasi ossessivamente: e questo è un indizio significativo, giacché la scelta del più umile, prezioso e fragile supporto identifica quest’uomo che, attraverso di essa, ha percorso il suo tempo con lo sguardo di un artista capace di dialogare con il lavoro dei maggiori protagonisti del secondo Novecento, da Vincenzo Agnetti a Andy Warhol, dai poveristi Anselmo, Kounellis, Pistoletto, Boetti a Ed Ruscha, Jim Dine, Peter Blake, fino alle generazioni più recenti (Cindy Sherman, Pipilotti Rist, Richard Prince, Matthew Barney): sono soltanto alcuni dei nomi che costellano la collezione di oltre cinquecento libri d’artista, una tipologia che ha scandito tutto il XX secolo, raccolta da Freiles. Un museo cartaceo da sfogliare e in cui convergono povertà e ricchezza, rarità e divulgazione. E molteplici cronologie e tendenze, dalla Pop art al Minimalismo, dal Concettualismo al Citazionismo.

In quella molteplicità si riflette lo spirito di Freiles. Il libro, la carta, hanno rappresentato l’alfa e l’omega di una vicenda in cui la pratica della pittura si univa a quella dell’editoria (con la bella rivista «Carte d’arte») e del promotore culturale nel suo spazio espositivo di Catania e non solo. Il bambino messinese (era nato nel 1943) che disegnava sui volumi di filosofia del padre da ragazzo iniziò a praticare la grafica a stampa, dalla xilografia all’acquaforte, dalla litografia alla serigrafia. Lo muoveva una curiosità innata per le tecniche (non ha trascurato neanche l’affresco, la fotografia, la ceramica) e l’interesse per il «farsi» dell’arte: giunse a fare da sé i suoi fogli, lasciando che il pigmento cromatico s’incorporasse con la pasta di cellulosa ancora morbida.

DA SUBITO INTRAPRESE la via dell’astrattismo più puro, documentato da un’attività espositiva spaziante dalla Quadriennale di Roma del 1975 alla Biennale di Venezia del 1982, dal Centre Pompidou di Parigi alla Whitechapel Art Gallery di Londra. Era, anche, un pittore aperto all’articolazione installativa delle sue opere (memorabile un «duetto» con gli stucchi di Serpotta nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo).

A ricordarlo resta sua figlia Silvia: a lei il compito di vegliare sulla produzione paterna e su una collezione tra le cui pagine si respira la memoria dei sodalizi che questo artista aperto al mondo intrecciò con colleghi come Burri, Tilson, Noland, Oldenburg, Scarpitta, Kosuth, Vedova, Tàpies. Saranno molti, ora, i suoi allievi all’Accademia di belle arti di Catania che porteranno dentro di loro il magistero di Freiles e i racconti di quegli incontri straordinari.