La sindrome di Ræbenson (Atlantide, pp. 272, euro 18), romanzo d’esordio di Giuseppe Quaranta è un libro denso, complesso, e particolarmente raffinato. Un libro che indugia sui dettagli, pieno di indizi disseminati nel testo, e di altrettanti depistaggi che costringono il lettore a ritornare sui propri passi, a «verificare» la veridicità delle immagini riportate, a rintracciare la fonte dei passi citati, o soltanto evocati, come in un sogno, o meglio un’allucinazione. Un libro la cui tessitura rimanda a Sebald, che con Borges e Nabokov, rappresenta per Quaranta un riferimento prezioso di stile e di poetica. Con Sebald, Quaranta condivide la riflessione sull’immagine e sulla memoria, la cui perdita non a caso, è il primo sintomo con cui si manifesta la misteriosa sindrome che dà il titolo al romanzo e affligge il protagonista Antonio Deltito, psichiatra quarantenne, proprio come l’autore. Deltito è sopraffatto dal terrore di non essere più sé stesso, da quello che il narratore della storia, suo amico e anch’egli psichiatra, definisce «orrore metamorfico», provocato dalla frammentazione dei ricordi, i cosiddetti «ræben», e la loro dispersione. Mentre il narratore – il cui nome non viene rivelato, ma si nasconde tra le righe – indaga e ricostruisce le vicende di Deltito, i confini tra le loro vite finiscono con l’intrecciarsi, sovrapporsi, e talvolta confondersi.

ENTRAMBI SONO DISTRATTI, condannati a perdere le cose, come già si vede dal loro primo incontro nella sala dell’anagrafe di Pisa, dove si erano recati, da perfetti sconosciuti, per avere smarrito entrambi la propria carta d’identità. Del resto l’identità e la sua perdita insieme alla malattia rappresentano una questione centrale: «Deltito si sentiva unico, come forse tutti quelli che hanno una malattia rara di cui fino al suo esordio non avevano mai sentito parlare. Si diceva: io non so cosa ho. Ed era talmente viva l’idea che qualcosa di estraneo alla propria natura gli avesse giocato un brutto tiro, che nemmeno per un attimo pensò che forse era meglio dire a sé stesso: io non so cosa sono».
«Io non so cosa ho» dunque «io non so cosa sono?» Se da una parte, dal punto di vista del malato, la malattia provoca uno sdoppiamento – «un fantasma codificato in una sindrome» scrive Quaranta – dall’altra la diagnosi spinge nella direzione opposta identificando il soggetto con la malattia. Ma «che cosa rende una malattia una malattia?» ci si domanda nella seconda parte del libro. Chi è che decide che sono malato? Dopo che il narratore è riuscito a inserire la sindrome in un ipotetico DSM-7 (nella realtà siamo al 5), i casi si moltiplicano tanto da parlare di una vera e propria invasione, e con i essi i dubbi: «E se stesse propagandando una malattia inesistente?».

NEI CENT’ANNI DI BASAGLIA, nel paese di Tobino, la letteratura ritorna a interrogarsi: cosa c’è dietro questo interesse? Di certo il romanzo di Quaranta, oltre a potersi considerare una vera e propria dichiarazione d’amore per l’arte e la letteratura («Ræbenson o Berenson?»), ci mette in guardia dall’imperante mania lombrosiana di catalogazione e misurazione. Parafrasando Foucault: dire equivale a interdire? L’esergo quanto mai azzeccato e profetico, scelto da Quaranta da Tristissimi giardini di Vitaliano Trevisan, suggerisce una pista da percorrere, una chiave di lettura importante del romanzo, e non solo: «Non so se sia così facile comprenderlo, ma certo che allo specializzarsi degli strumenti di misurazione, e alla loro facile accessibilità, corrisponde un patologico e progressivo annebbiamento della visione d’insieme, mentre la realtà, il senso della realtà, si dissolve in un delirio generalizzato d’interpretazione».