«Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio… Potete venire a salutarmi lunedì 18 novembre alle ore 11 alla Chiesa S. Eugenio a V.le Belle Arti Roma». Con ineffabile ironia – suo tratto distintivo insieme all’ennesima sigaretta stretta fra le dita –Antonello Falqui, 94 anni uno dei maestri della televisione italiana, regista dei più grandi show del sabato sera, valorizzatore di talenti come Mina, Raffaella Carrà, Rita Pavone, Walter Chiari, Lelio Luttazzi, ha «comunicato» in un post la sua morte.

RIGOROSO, spesso duro con gli artisti durante le estenuanti prove degli show, Falqui è sempre stato sorretto da un’implacabile etica professionale. «Odio tutto ciò che è casuale – spiegava – accanto all’esigenza di accontentare il pubblico ci deve essere anche una volontà di stimolo al buon gusto, a un minimo di senso critico».
Certo è che gli esordi del giovane Falqui lo indirizzano verso il grande schermo: gli studi al Centro sperimentale, il lavoro come aiuto regista – in particolare con Curzio Malaparte con il quale collabora per il controverso Cristo proibito, ma poi dal 1952 si dedica completamente al piccolo schermo.

Qui trova il suo ambiente congeniale dove poter sperimentare il suo gusto raffinato e innovativo, preso a prestito dagli show americani e dalle passerelle di Broadway, contaminato dal teatro di rivista portato con sensibilità rara sul primo canale della Rai. La fama – dopo la gavetta passata negli studi milanesi della neonata tv di stato a montare documentari e qualche trasmissione, arriva con gli show del sabato sera. Prima il Musichiere condotto da Mario Riva, in onda dal 1957 al 1960. Poi quattro edizioni di Canzonissima (1958, 1959, 1968, 1969), altrettante di Studio Uno (1961, 1962-63, 1965 e 1966), forse il più famoso e celebrato.

INTRODUSSE un innovativo uso delle riprese – pur con i mezzi limitati dell’epoca: «Avevo messo una camera su un go-kart – racconta a Lele Cerri in un’intervista – una specie di lucertola ambulante, quasi a terra. E poi un’altra camera, che faceva un totale completamente in controcampo, con la vedette di spalle e tutto il pubblico di faccia, che era una cosa per allora impensabile. Naturalmente questa camera non andava in onda più di tre quattro volte a trasmissione. Tant’è vero che secondo la dirigenza tecnica era una camera inutile. Mi dicevano ’mah, per tre inquadrature…’. Eppure, con Mina, con questi mezzi facevamo delle fantasie musicali lunghissime, tutte in piani sequenza fatti sul carrello. Tutto un concertato di spostamenti da un punto all’altro punto, con il raccordo con l’accento musicale ancora in un altro punto. Per i suoi medley, a volte si facevano anche l’una, le due di notte per montarne uno, perché erano pieni di stacchi a tempo». Proprio con Mina – con la quale intrecciò una relazione sentimentale – i momenti più esaltanti della sua carriera; «Lavoravamo come dei matti, senza orari. Lei mi lasciava fare, non ha mai obiettato su nulla».

Finita l’epoca d’oro dei rutilanti show dei ’60, lo stile di Falqui intelligentemente si evolve: da intrattenimento puro a una rilettura – anche sociale – dell’Italia popolare. Sono gli anni di Paolo Villaggio e della sua prima maschera Fracchia, entrambi del 1975, mentre l’anno prima in Milleluci ricostruisce in otto puntate la storia dello spettacolo, portando per l’ultima volta in tv Mina questa volta in coppia con Raffaella Carrà.

ARRIVERANNO poi Al paradise (1983) e Un altro varietà. Dal 1990, Falqui abbandona il piccolo schermo e con una punta di amarezza anni dopo commentava: «I miei spettacoli cominciavano ad essere troppo dispendiosi. E poi non c’erano più le maestranze, i personaggi e dirigenti di quegli anni Rai». Si dedicherà in qualche occasione all’insegnamento della regia televisiva in lezioni tenute all’Accademia di Belle Arti di Macerata e presso la società di produzione televisiva e distribuzione di format Einstein Multimedia, di cui era anche consulente.