Fuori dai meccanismi della musica pop, Antonella Ruggiero si muove da tempo su diversi piani stilistici che obbediscono solo a una logica: curiosità e creatività. Per questo opera anche in ambito indipendente attraverso Libera, una etichetta personale che distribuisce esclusivamente sul suo sito – shop.antonellaruggiero.com, tutta la sua produzione discografica a cui si aggiunge da oggi il nuovo album: Empatía. Titolo e repertorio simbolico: si tratta infatti della registrazione dell’ultimo live tenuto dall’artista genovese lo scorso 8 febbraio prima del lockdown, all’interno della Basilica di Sant’Antonio a Padova, un concerto dedicato al mondo del volontariato che in piena pandemia assume un valore molto significativo. Curato insieme al compagno di vita e produttore Roberto Colombo e al Maurizio Camardi Sabir 5et, si compone di quindici pezzi – registrati come in un album da studio senza gli applausi del pubblico- ed esce proprio in concomitanza con il passaggio del testimone da Padova a Berlino, in qualità di Capitale Internazionale del Volontariato. Si va da Nos padre di Camardi all’Ave Maria di De Andrè l’inno latino Veni veni Emmanuel; Cavallo bianco, la prima canzone interpretata da Antonella nei Matia Bazar, Respondemos, brano fondamentale del repertorio di musica ebraica e Soltanto, tradotto e cantato da Alessandra Moro sul tradizionale yiddish Main rue platz. «È stata una serata intensa – sottolinea Antonella Ruggiero al telefono da Berlino dove vive parte dell’anno e dove terrà anche due concerti poco prima di Natale – per sottolineare l’importanza del volontariato, e visto quanto è successo siamo stati tristemente profetici».

ANCHE la scelta delle canzoni in scaletta riveste un carattere simbolico: «Le ho cercate nel repertorio che ho costruito negli anni e queste mi sono sembrate le più adatte: musica sacra, etnica, popolare. Nella basilica quella sera eravamo tantissimi, uniti da una vera e propria empatía». Dall’uscita dai Matia Bazar al primo disco solista sono intercorsi sette anni, per poi spingersi su territori diversi, a volte impervi, abbandonando la discografia ufficiale e autoprodursi. Sembrerebbe un suicidio commerciale…«E invece mi si sono spalancate porte anche inaspettate. Ed era quello che volevo quando ho deciso di sganciarmi dai rituali della discografia. Non ci sono state proposte da parte mia, ho sempre ricevuto offerte di collaborazioni da altre formazioni: in luoghi speciali, siti storici, basiliche, cattedrali. Ho lavorato sia con grandi gruppi provenienti dalla musica popolare, classica, grandi orchestre, bande, jazzisti: è stato realmente un viaggio interessantissimo. Quello che dovrebbe essere la musica e l’arte in genere…».

LA PANDEMIA ha messo in crisi il comparto della musica dal vivo: «Tutti lavoratori che hanno bisogno di tutele, contratti, sicurezze: abbiamo assistito per troppi anni a lavori precari all’interno di questo ambiente dove sono accaduti anche gravi incidenti non coperti da assicurazione. È una situazione drammatica, ma lo vediamo intorno a noi perché si taglia dove invece bisognerebbe incrementare risorse: sanità, scuola».

CON I MATIA BAZAR ha vissuto un lungo periodo fatto di grande pop declinato in ambientazioni sonore originali: «Quattordici anni fatti di spostamenti artistici e fisici, ho avuto occasione di vedere l’Unione Sovietica, ho visto il Cile con il coprifuoco vero e parti del mondo dove la vita era molto differente dalla nostra. Con i Matia abbiamo fatto un bel lavoro che specie per alcuni di noi non doveva diventare un cliché, qualcosa di irripetibile che ci ha consentito di sperimentare. Ci sono stati momenti in cui abbiamo spiazzato anche i nostri fan». Ora il pop è prigioniero di stream e stereotipi: «Tutto omologato: mi chiedo come si possa seguire una cosa che si ripete sempre uguale. Stupirsi musicalmente oggi giorno è sempre più difficile».