Le bambine troppo vivaci si curano con le iniezioni: questa l’eredità familiare che Antonella Moscati riversa, in un registro tragicomico, nel suo nuovo racconto autobiografico, Patologie (Quodlibet, pp. 96, € 12,00), dedicato alla sua infanzia di ragazzina magrissima, cresciuta nella famiglia di un medico napoletano, che tale non era considerato, tuttavia, dalla moglie e dalle tre figlie, in quanto specializzato in una materia di cui non si poteva parlare, soprattutto a scuola – la dermosifilopatia. Coerentemente con la confusione generata dal ruolo paterno, parte da qui il racconto di formazione dell’autrice: non dalla medicina, semmai dalla malattia.

Ben disposto verso le tonsilliti e i mali chiaramente visibili (sifilide e scabbia in primis), il padre di Antonella Moscati era invece terrorizzato dalle malattie invisibili, essendo convinto – come la moglie e le figlie – che i sintomi meno inequivocabili nascondessero un morbo potenzialmente mortale. Mentre ogni ferita può preludere al tetano e ogni influenza al linfoma, nella loro assunzione confortante e rituale di un profluvio di ricostituenti, vitamine, antibiotici, le tre sorelle si appassionano alla medicina non medicina, forse proprio per trovare rassicurazione in una scienza parodistica (parossismo ipocondriaco) dei mali immaginari che le affliggono: invece dei classici per ragazzi leggono, prima di addormentarsi, pagine e pagine di manuali di diagnostica e terapia, mentre l’invidia per le scoperte di certi vaccini all’ultimo grido cresce proporzionalmente al timore di farsi iniettare liquidi ricostituenti per l’eccessiva magrezza o vivacità.

È a questa infanzia trascorsa tra svenimenti, fughe, scongiuri, invettive contro i pediatri e preghiere alla Madonna o al lontano parente santo – medico vero, lui, e anche «canonico e canonizzato» – che la narratrice guarda, individuandone l’origine della sua «ben strana vita», che la unisce alla famiglia in quella paura della morte con cui non è mai venuta a patti. Così, il «ripetersi incessante di quei discorsi familiari che come una carta moschicida» catturavano le «ali incerte di un corpo infantile», con l’effetto di tarparle «forse per sempre», diventa affidabile solo al segno dell’ironia, che con la sua forza negativa mette a distanza una materia vicina e «sempre dolorosa». Solo ironicamente, dunque, tra queste pagine, Moscati riesce a far parlare il proprio Io, essendo – come scriveva nei suoi Deliri (Nottetempo, 2009) – il raccontare la forma che riguarda la «parte più esterna della nostra mente», la «superficie della sua pelle».

Il secondo racconto di Patologie, titolato «Agt» – acronimo di Amnesia globale transitoria – è dedicato per l’appunto all’assenza cui approda l’Io dell’autrice, al mistero della sua scomparsa, che l’ha colpita per qualche ora, una mattina di maggio, pochi anni fa.

Riprendendo lo stile che le è più consueto – a metà tra filosofia e vissuto – Moscati indaga il luogo oscuro in cui, venuto meno l’io, resta qualcosa che non sa di essere, eppure è in grado di fornire ai medici le proprie generalità, un «residuo» di sé «cieco e sordo» che scopriamo nella «zona di riflessi arcaici» dove la memoria non si può formare e dove ognuno di noi ripercorre una storia che in fondo appartiene a tutti e a nessuno: una regione impersonale, «infinita materia fisica e metafisica» in cui non importa «se siamo vivi o morti», com’era quella da cui scaturiva il racconto ironico delle «nostre benedette patologie» e dove ci scopriamo «liberi da noi stessi» sotto la membrana sottile del narrare.