A Torino è arrivato il momento della Biennale Tecnologia, il cui valido motto è Tecnologia è umanità. L’umanità, però, al momento si trova in lockdown. Le mode del tech sono ancora in auge: Internet delle cose, realtà virtuale, stampa 3D, droni, criptovalute, social, smart cities – ma non c’è spazio per gli effetti speciali durante una pandemia.
Dovremmo quindi concentrarci sull’umanità di Torino, perché le persone stanno soffrendo. Senza assembramenti, concerti, bar, con il distanziamento sociale, gli ospedali improvvisati per i malati e praticamente nessun turista, la città sembra andare alla deriva. Una città smart, elegante, tecnologica, una «capitale dell’Intelligenza artificiale», che ospita un nuovo istituto dedicato all’Ai, ma che, in modo quasi surreale, si svuota dei suoi abitanti. Anche la Biennale Tecnologia, che ha visto una grandissima partecipazione di pubblico lo scorso anno, ha dovuto ritirarsi dietro gli schermi.
Ciononostante, le tante statue storiche in bronzo della città rimangono al loro posto, fronteggiano il contagio. Una delle mie preferite è senza dubbio quella di Massimo D’Azeglio, che si trova nel Parco del Valentino.

IL MARCHESE D’AZEGLIO è stato un innovatore progressista in uno stato tecnocratico, visto che era il Primo ministro del Regno di Sardegna, agli albori del Risorgimento. Ambizioso pittore e scrittore prima che la guerra lo costringesse a diventare un politico, D’Azeglio, come suo suocero Alessandro Manzoni, aveva una concezione profonda e complessa dell’Italia. Questo perché, a quel tempo, gli italiani fondamentalmente non esistevano. L’Italia, infatti, andava «costruita» e, con lei, anche i suoi cittadini e abitanti.
Dipingendo fantasie creative per il bene dell’Italia del futuro, D’Azeglio realizzava i cosiddetti «paesaggi istoriati». Si trattava di un’arte fine, un modo per diffondere la cultura. I suoi dipinti patriottici erano tasselli di una campagna mediatica ad ampio raggio, pensata per convincere le persone della loro appartenenza fisica, morale, sociale ed etica a un futuro stato-nazione, un «Regno d’Italia». Tale regno, che trovava fondamento nelle sue radici storiche, non esisteva ancora, ma sarebbe presto esistito.

IL RISORGIMENTO, del resto, non è un fenomeno del tutto nuovo, ma una ri-creazione: emerge da uno scenario di relitti e rovine, di abbandono; consiste in una sorta di archeologia creativa. Tale visione storica può essere dipinta o raccontata nei romanzi, oppure (come nel caso di D’Azeglio) può consistere nel dipingere dei romanzi. Nel cinema muto torinese il «paesaggio istoriato» diventa un successo storico, come dimostra il caso di Cabiria.
Il paesaggio istoriato può anche essere oggetto di tecniche ingegneristiche ed essere costruito fisicamente, da accademici e intellettuali insieme. Fu proprio questa l’iniziativa torinese per l’Esposizione generale italiana del 1884. Questo grandissimo evento era dedicato al racconto di come l’umanità stesse assorbendo le nuove tecnologie, dall’elettricità al carburante per auto, ai telefoni. Ma fu anche l’occasione per presentare in anteprima il «Borgo medievale» di Torino, una sorprendente replica di un borgo medievale piemontese, realizzato in una sezione di parco sulle rive del fiume Po. Fu il successo inaspettato dell’esposizione: il primo ambiente storico riprodotto ex-novo al mondo. Il borgo si riempì velocemente di torinesi entusiasti, che indossavano costumi del passato e vi ritrovavano ogni notte a cantare, bere e mangiare. Era una città-copia, piena di allegri «replicanti» che fingevano di viverci.
Come Massimo D’Azeglio, il geniale ideatore del Borgo medievale era un pittore paesaggista. Si trattava di Alfredo D’Andrade, portoghese di nascita che, essendo un emigrato, aveva bisogno in prima persona di una macchina culturale, di un intervento celebrativo che potesse rendere «gli italiani più italiani» partendo da un progetto urbano. Il successo del suo progetto significò così tanto per lui che abbandonò la carriera di pittore e divenne un ministro a tempo pieno, dedicandosi alla conservazione storica di edifici del paese.

ECCO, È QUESTO L’ASPETTO umano che alla «smart city» inevitabilmente manca: è inutile spalmare la banda larga su una città come il burro sul pane. Nel caso che vi racconto la chiave dell’innovazione, e parte di questo gusto antiquario che rimane futuristico, è consistita proprio nell’utilizzare gli edifici e i loro ambienti, persino il loro «marchio», come strumenti di integrazione culturale a lungo termine.
Il paesaggio istoriato rende lo spettatore un partecipante attivo della storia: reinventa l’architettura come medium sociale. Le cosiddette «industria del patrimonio culturale» ed «economia museale» sono l’industria e l’economia che forgiarono gli italiani di d’Azeglio.

È POSSIBILE STIPARE I TURISTI sugli autobus, dare loro degli smartphone, mostrare le aride rovine dell’Impero romano e rimetterli sugli stessi autobus. Ma, dal punto di vista progettuale, si tratta di una pessima idea: non si pone il problema di indagare le motivazioni per cui i turisti scelgono questi pellegrinaggi in Italia. Ignora, poi, l’effetto che l’Italia stessa fa agli italiani.
Ecco perché il sovraffollamento turistico crea disagio, ma il cosiddetto «undertourism», come quello che stiamo vivendo durante Covid-19, è una vera calamità.
Immaginate un finto borgo medievale oggi come centro di profitto: attira le persone che percorrono le strade della città, generalmente seguendo itinerari predeterminati, e le fa uscire dal negozio di souvenir. Torino, in un certo senso, ha inventato tutto questo nel 1884. Non si trattava di una campagna promozionale calcolata a freddo. Era un’autentica forma di espressione della cultura regionale, in qualche modo simile al movimento Slow Food, che invita a mangiare cibo di antica tradizione in alcuni dei più efficienti e ben progettati negozi di alimentari.
I torinesi dovrebbero dunque emulare i loro predecessori, sviluppando ed estendendo il futuro dell’antiquariato. Ad esempio, la città piemontese ha recentemente riparato l’ormai fatiscente Borgo medievale. Ma «restaurarlo» non ha molto senso: la scelta logica dovrebbe essere «farlo crescere», ampliando quel Borgo nello stesso modo in cui Torino si espanse a partire dal 1884.
Torino, poi, è nota per la sua ostilità verso i grattacieli: Milano ne ha una foresta, ma i torinesi non se ne curano. Eppure, Torino un tempo aveva un grattacielo medievale, la Torre civica, che era uno degli edifici italiani più alti nel 1500. Napoleone la distrusse nel 1801, ma potrebbe benissimo essere ricostruita, adornata col suo famoso orologio e col suo toro in bronzo dorato. Perché no?

PER CENTINAIA DI ANNI, la Torre civica – conosciuta anche come «Torre di San Gregorio» e «Torre del Toro» – è stata il simbolo della città, la Mole Antonelliana di quei giorni. Non vi è alcuna ragione tecnica per la quale non dovrebbe essere ricostruita, e magari completata con tutte le tecnologie 5G e smart immaginabili. Si tratterebbe della prima riproduzione italiana di un edificio storico mancante: il vero «Risorgimento» di una struttura fortemente simbolica, che era stata al suo posto per seicento anni e svanita da soli duecento.
Chiaramente la ricostruzione di questa torre scomparsa verrebbe immediatamente accolta e celebrata. Altre città si affretterebbero a imitare Torino, dato che tutti sembrano approfittare delle invenzioni che i torinesi lanciano nella loro solo apparente ingenuità.
Potrebbero non credermi in questo momento, perché sono un semplice futurista; ma un giorno tutto questo sarà chiaro.