La notizia non presenta tratti particolarmente nuovi: accade di frequente che il politico di turno, raggiunto col voto popolare un alto scranno istituzionale della comunità, cittadina, nazionale o regionale che sia, si senta in dovere di tuonare contro l’uso politico dell’arte sovvenzionata con i fondi pubblici, talvolta con corredo di minacce di tagli al sostegno materiale, specie quando la manifestazione artistica non sposa tematiche affini alle posizioni del politico stesso. Non sorprendono più di tanto l’esternazione irritata e ancor meno la sedia vuota del governatore leghista Fedriga al Mittelfest di Cividale, quanto la mancanza di equilibrio nel valutare come Antigone di Sofocle, il lavoro del regista greco Kostantinos Ntellas e del direttore del festival Haris Pašovic parlino un linguaggio diverso rispetto alla politica regionale, se non più alto comunque difficilmente compatibile con distinguo locali e persino con strategie politiche nazionali, più o meno ciniche o financo miserande. Parlano il linguaggio della cultura, della coscienza e dell’umanità, che nell’Europa così febbricitante di questo secondo decennio del nuovo secolo ritrova ancora linfa viva nelle parole dei tragici greci, forse uno degli unici, profondi tratti identitarii di una cultura che si vorrebbe sempre meno condivisa.

UNA PAROLA che ogni uomo con responsabilità politiche, indipendentemente da posizioni e questioni contingenti farebbe bene a ascoltare: non gli toglierà comunque potere di legiferare e di decidere. Gli strali del governatore del Friuli si sono abbattuti su una similitudine accennata dal direttore artistico fra le figure di Antigone e di Carola Rackete.

ANCHE da più parti si è obiettato come, a differenza di Antigone, Rackete non si sia opposta a una legge tirannica ma ha forse difeso il diritto dinanzi a tentativi illegittimi di piegare norme dello stato e del diritto internazionale, come paiono dimostrare le successive vicende giudiziarie. Vale peraltro la pena di ricordare una volta di più qualche tratto della personalità artistica di Haris Pašovic, dallo scorso anno alla guida del Mittelfest, regista che deve una delle sue prime affermazioni a Belgrado, nei prodromi del collasso della Jugoslavia titina in cui si era formato, a un altro testo greco che si attaglia anche troppo bene anche ai nostri tempi, Gli uccelli di Aristofane.

IN QUEI TURBOLENTI inizi di anni ‘90 seguirono allestimenti carichi di energia di Ubu Re, Amleto di Buñuel e Waiting for Godot: nel 1993 sotto le bombe dell’assedio di Sarajevo, quest’ultimo titolo divenne la bandiera, anche controversa e discussa per la regia curata da Susan Sontag, dell’incrollabile voce vitale dell’arte, proprio nel festival che il serbo-bosniaco Pašovic volle caparbiamente tenere aperto, raddoppiando poi con la creazione del festival cinematografico.
Riesce davvero difficile immaginare che Pašović non conosca il potere della politica e dell’arte e non sappia dove collocare gli spazi della prima e della seconda.