L’Agenzia per il farmaco approverà l’uso degli anticorpi monoclonali come terapia anti-Covid. La decisione è arrivata ieri sera dopo due giorni di intense riunioni della Commissione Tecnico-scientifica dell’Agenzia. Gli anticorpi sono prodotti da due aziende farmaceutiche, la Regeneron e la Ely Lilly. La prima produce un cocktail di due anticorpi, denominati casirivimab e imdevimab. La seconda è una monoterapia a base dell’improninciabile bamlanivimab. Anche l’Italia si allinea a quanto deciso da altri paesi sull’esempio degli Stati Uniti, l’autorizzazione risale a novembre. Secondo il direttore generale dell’Aifa, Nicola Magrini, il governo ha individuato un fondo finanziario per questi farmaci che consentirà di garantirli a «decine di migliaia di pazienti». Per il momento l’uso degli anticorpi sarà riservato a pazienti in fase precoce ma a rischio di peggioramento.

LA TERAPIA A BASE di anticorpi monoclonali imita l’azione del sistema immunitario. Gli anticorpi sono molecole in grado di legarsi alla proteina esterna del virus (la cosiddetta “Spike”) e impedire che esso agganci la cellula e la infetti. A produrli normalmente è il sistema immunitario ma oggi siamo in grado di generarli in laboratorio. Il loro aiuto è particolarmente utile per i pazienti fragili e immunodepressi, a condizione però che siano somministrati quando i sintomi sono ancora lievi. Si tratta di farmaci ancora sperimentali ma la pressione per cercare una cura ha spinto molti governi ad autorizzarne l’uso ancor prima di avere dati definitivi sulla loro efficacia.

SULLE TERAPIE sono disponibili solo i dati relativi a test effettuati su numeri relativamente piccoli di pazienti. I risultati sono incoraggianti, sebbene riguardino l’effetto delle terapie sulla carica virale dei pazienti e non sul loro stato di salute. Una minore carica virale però non sempre corrisponde ad un miglioramento dei sintomi, ma monitorare lo stato di salute dei pazienti in modo statisticamente significativo avrebbe richiesto il coinvolgimento di un numero maggiore di volontari.

La scelta di un parametro più favorevole per dimostrare l’efficacia di un farmaco è uno stratagemma regolarmente utilizzato dalle case farmaceutiche per accelerare l’approvazione dei farmaci. L’ultimo problema viene dalle varianti virali, che secondo studi recenti sarebbero in gradi di dribblare gli anticorpi.

Con tutti questi dubbi l’Agenzia aveva finora resistito alle pressioni dei fautori degli anticorpi, soprattutto per volere del direttore Nicola Magrini. Come lui, molti esperti temono che tali terapie non siano facilmente praticabili in una condizione di emergenza come questa. «La produzione è limitata», spiega Paul Sax dell’università di Harvard in un post sul sito del New England Journal of Medicine «con l’attuale numero di casi le scorte si esaurirebbero in due settimane». È problematica anche la somministrazione: un’infusione intravenosa di tre ore da svolgersi in ospedale. «I pronto soccorso non intendono certo bloccare così a lungo il flusso dei pazienti». Inoltre, la somministrazione dovrebbe essere fatta in ambienti ospedalieri frequentati anche da persone immunocompromesse. Infine c’è la questione del costo elevato: al governo Usa ogni fiala di bamlanivimab è costata 1.250 euro, e visto il numero di pazienti potenzialmente coinvolti questo metterà in difficoltà i sistemi sanitari pubblici di paesi come l’Italia. «Un altro pezzo di un puzzle complicato, che potrebbe contribuire a inasprire le disparità esistenti nella presa in carico dei pazienti con Covid-19», secondo Luca De Fiore, direttore della rivista Recenti progressi in medicina ed ex-presidente del nodo italiano del network Cochrane, una rete internazionale di ricercatori che valutano sistematicamente e in modo indipendente le evidenze scientifiche che supportano la pratica medica. Perciò, anche negli Usa che li hanno autorizzati per primi, più della metà dei 641 mila trattamenti a base di anticorpi monoclonali acquistati giacciono ancora non utilizzati nei depositi per le difficoltà logistiche di somministrarli. Nonostante l’autorizzazione, non saranno gli anticorpi quindi ad arginare la pandemia.

COME IN ALTRE OCCASIONI, le evidenze scientifiche hanno dovuto però scontrarsi con le pressioni politiche, tese a mostrare all’opinione pubblica che nessuna sperimentazione è preclusa alla cittadinanza. Anche sul vaccino AstraZeneca potrebbero presto cadere le cautele dell’Aifa, che ne sconsiglia l’uso al di sopra dei 55 anni di età: questo limite di età impedirebbe di somministrarlo alle categorie individuate come prioritarie e rallenterebbe il piano vaccinale già in difficoltà per la mancanza delle dosi. Perciò, regioni e governo spingono affinché Aifa riveda le raccomandazioni per la terza volta in 5 giorni, privilegiando il consenso politico alle ragioni della scienza.