Donne e lavoro, un connubio che in Palestina assume caratteristiche diverse da quelle del mondo arabo. Perché qui, alla società patriarcale tradizionale si aggiunge un ostacolo in più: l’occupazione israeliana. Le donne, ancora oggi ultimo avamposto della resistenza, in grado di reggere sulle spalle famiglie e comunità disgregate da arresti e divisioni, trovano spesso le porte del mercato del lavoro sbarrate.

Lavorano, ma soprattutto in nero, e nonostante l’elevato tasso di scolarizzazione (oltre il 57% dei laureati palestinesi è donna), firmare un contratto di lavoro non è poi così scontato: salari più bassi, meno opportunità di carriera, professioni quasi inaccessibili. E un tasso di occupazione che è tra i più bassi del mondo arabo: solo il 17,1% delle donne residenti nei Territori ha un lavoro legale: oltre il 60% è risucchiato nel mercato nero, nel settore agricolo e nelle aziende familiari.

Ma c’è chi si organizza per conto proprio. Sono le donne beduine, dalla Cisgiordania al deserto del Naqab: cooperative al femminile, nate per rendere più indipendenti le donne e ridare vita alla tradizione beduina.

Arriviamo ad Anata, villaggio lungo il Muro di Separazione, prima del 2002 parte del Comune di Gerusalemme e ora in Cisgiordania. Negli anni molte famiglie della tribù beduina Jahalin si sono trasferite nelle case del villaggio, altre continuano a vivere nelle baracche di alluminio nei campi.

Per sostenere la comunità, dal 2011 le donne di Anata hanno preso in mano il progetto della Ong italiana Vento di Terra: è la Silver Tent (Tenda d’Argento), cooperativa artigiana di gioielleria beduina. Nel piccolo laboratorio, alcune ragazze preparano orecchini, bracciali, collane, attorniate da scatole di ogni dimensione con all’interno il materiale necessario: alluminio, seta, argento, rame, pietre colorate e perle.

«La cooperativa nasce dall’idea di fornire alla comunità di Anata uno progetto di sviluppo economico, non un mero progetto umanitario – ci spiega Inam Whaidi, manager della Silver Tent – Vento di Terra ha tenuto un corso di formazione, poi abbiamo avviato la produzione. Oggi sono le donne a gestire tutto: con il denaro derivante dalle vendite nel mercato equosolidale italiano, paghiamo gli stipendi e investiamo in nuovi materiali. La comunità ci appoggia anche perché abbiamo ripreso in mano la nostra tradizione artistica, l’antica gioielleria beduina».

Dalle mani delle giovani escono forme che ricordano il profondo legame con la natura, foglie, cerchi, quadrati, fiori. E, accanto al desiderio di fare della tradizione il cuore della cooperativa, l’obiettivo è l’autodeterminazione della donna: «Nella mentalità beduina, non è normale che una donna esca di casa e vada a lavorare – continua Inam – Sono ancora poche le donne che lavorano con noi, ma ci allargheremo con calma, magari facendole prima lavorare da casa per poi provare a portarle nei laboratori della cooperativa».

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Obiettivo simile è quello di un altro gruppo di donne beduine. Ci spostiamo oltre il Muro di Separazione. Siamo a Lakiya, una delle sette township costruite dal governo israeliano per raccogliere le comunità beduine palestinesi dei villaggi non riconosciuti e oggi minacciati di definitiva espulsione dal Piano Prawer. Fondata nel 1982, Lakiya è una delle città più povere dell’intero Stato di Israele. Qui, alla fine degli anni ’90, è nata Sidreh, organizzazione no profit volta al miglioramento delle condizioni di vita delle donne beduine.

Come? Con educazione e lavoro. Corsi di matematica, arabo, storia, per far tagliare il traguardo del diploma a chi non ce l’ha; corsi sui diritti delle donne e sulle violenze domestiche per aumentare la consapevolezza della comunità; e infine una cooperativa della lana. Qui 70 donne producono tappeti, cuscini, borse, portafogli fatti a mano lavorando la lana delle pecore awasi. Nel negozio accanto alla cooperativa, i colori accesi della tradizione beduina fanno mostra di sé, accanto ai gomitoli di lana in attesa di essere trasformati dalle mani delle donne di Lakiya.

«Abbiamo diviso le donne in sei gruppi, ognuno segue una fase della produzione – ci spiega Hura, una delle responsabili di Sidreh – Dalla filatura alla preparazione per la tintura; dalla colorazione alla tessitura fino alla cucitura finale. Non è stato facile iniziare, molte famiglie non vedono di buon occhio che una donna esca di casa per lavorare. Ma, vuoi per le difficoltà economiche, vuoi per i compromessi trovati, oggi lavorano con noi 70 donne. Garantire un salario rende le donne più indipendenti dal marito o dal padre».

Il contesto non è dei migliori: le donne sono costrette a rifugiarsi in impieghi considerati “femminili”, come l’infermiera, l’insegnante e la donna delle pulizie. A monte la generale mancanza di lavoro dovuta al crollo della produzione palestinese, ma anche regole sociali che influenzano le donne stesse: sono molte quelle che preferiscono dedicarsi alla casa, invece di bussare a porte che resteranno sbarrate. Per aprirle, c’è chi usa lana e pietre colorate.