Calidoscopic è il terzo album del cantante, arrangiatore e compositore (autore di testi e performer) Anthus, dopo Dreamer e Profundament Jazz (2015). Artista apolide – siciliano di origine, apertosi al jazz a Dublino – è ora radicato in Catalogna con presenze nei festival (Barcellona, Girona, Aro, Terrassa) e vari riconoscimenti. Anthus crea una musica meticcia a livello sonoro e linguistico. In essa il messaggio più esplosivo è quello di una convivenza creativa e visionaria di vari elementi, quasi una metafora di come dovrebbero essere le società europee odierne. Lo abbiamo intervistato.

Per il premio Enderrock lei è «Miglior artista rivelazione» del 2017 e il suo Calidoscòpic, è risultato «miglior disco». È un lavoro dove convivono tante musiche diverse.

Di sicuro la mia culla mediterranea incide molto sui suoni. Aver ascoltato musica popolare siciliana fin da neonato tra le braccia di mia nonna e da adulto, aver ricercato e assorbito musiche da Magreb, Grecia e sud della Spagna ha lasciato una traccia ben visibile in me. Sono stato anche accompagnato da rap, pop e funky, stili che ti entrano dentro. Ma il jazz è la musica che mi fa sentire completamente me stesso. Il jazz è capace di contenere stili così diversi fino all’espressione più sincera di quello che sono, senza cliché o dogmi. E proprio per questo a volte non accetto le regole di una lingua e per questo ne ho inventata una in qualche testo: un miscuglio di suoni dal catalano al siciliano, napoletano con un pizzico di francese.

La sua tecnica vocale ha tratti innovativi ed elementi del folclore. Si va avanti guardandosi indietro?

Per me la musica folclorica è la voce dei popoli, il suo Dna, per cui mi risulta spontaneo che questi tratti siano presenti nella mia voce/strumento. D’altro canto la lezione di Demetrio Stratos è oggi una delle eredità più importanti per quanti considerano che la voce vada utilizzata anche nel campo della sperimentazione. Nel brano Metròpolis utilizzo elementi folclorici per esprimere come mi sento in questa grande città chiamata mondo, dove si vive nell’alienazione scaturita dalle mode e delle false necessità. Bisogna fermarsi! Provare a guardarsi indietro con attenzione per farmi capire da dove vengo, dove sono e come posso andare avanti.

Lei è siciliano d’origine, ha vissuto in Irlanda prima di trasferirsi in Spagna, usa il catalano in chiave jazz. 

La lingua non è solo un canale di comunicazione, ma un miscuglio di suoni per tirar fuori emozioni che non sono traducibili in altre lingue. Per capire e amare il posto dove mi trovo ho studiato il catalano e ho sentito la necessità di servirmene in Calidoscòpic per esprimere chi sono, utilizzando suoni che mi circondano e fanno parte di me, facendoli vivere con il jazz che mi appassiona.

Ritiene che la definizione di «crooner del jazz mediterraneo» abbia un qualche fondamento?

La definizione, che mi lusinga, viene dai critici musicali. So per certo che i limiti geografici di questa musica sono stabiliti dai popoli, senza esclusione di nessuno, che si affacciano sul Mediterraneo e che presentano caratteri sonori comuni. Quando queste musiche si sposano con il jazz, ecco che nasce quella fusione di cui si parla, uno stile che mi permette di esprimere integralmente ciò che sono.

Lei parla di «Calidoscòpic» come «celebrazione della diversità, del cambiamento e dell’evoluzione»: c’è un messaggio di libertà e di inclusione nel jazz?

Sì, certo. Forse suona scontato ma vedo con preoccupazione i movimenti nati in Europa che minacciano la libertà. Nel mio disco celebro la diversità, suoni diversi che convivono insieme, ed anche il cambiamento quale ricerca di nuove combinazioni strumentali e vocali. Così vorrei che fosse per le persone di colori e culture diverse che compongono la nostra società dove sarebbe necessario osservarci per capire, migliorare, rifiutare i falsi modelli imposti da chi ci vorrebbe meno colti, ed evolvere. Ecco, sento di aver tramesso con il mio disco un messaggio di liberazione.

Dove sta andando il jazz del nuovo millennio?

Ho sempre creduto che il jazz sia una musica elastica, capace di assorbire altri stili musicali e di fondersi con essi. Ciò è accaduto fin dall’inizio, sia con l’espandersi nel resto del mondo, convivendo con il flamenco, la musica celtica o giapponese. Vedo tre direzioni per il jazz: il voler mantenersi nella sfera tradizionale, così come l’abbiamo conosciuta a New Orleans; la direzione della fusione, il jazz entra in contatto con altre musiche del mondo e si trasforma con esse; infine la direzione della sperimentazione.