Alle feste, in discoteca, nei pub, e in ogni altro luogo o occasione in cui i giovani sono soliti riunirsi per fare baldoria, conoscersi o semplicemente ammazzare il tempo, c’è sempre chi finisce per ritrovarsi in disparte. Costretto nella posizione dello spettatore defilato, l’inesperto delle arti arti conviviali invidia la naturalezza con cui gli altri sanno stare assieme. In particolare, invidia il parlare fitto, ininterrotto. Osservando i volti degli altri, gli occhi sgranati, le risate sfrenate, le conversazioni gli paiono quanto di più interessante o spassoso ci sia da udire al mondo. Contempla il chiacchiericcio come si contempla un paradiso inarrivabile e le rare volte in cui gli riesce di unirsi a un gruppo, la conversazione cade in un languore penoso oppure si rivela di una banalità desolante, se non idiota. La strana forma di nostalgia che segue non è vera e propria delusione, giacché, nel fondo di sé, l’inesperto non si aspettava altro che banalità. È piuttosto un senso di perdita per qualcosa che non si può perdere, semplicemente perché non è mai esistito.

Si tratta, in tutta evidenza, di un affascinamento morboso per il vacuo, vale a dire per lo svilimento mondano di un mistero ben più nobile e spietato, il vuoto in senso filosofico, il nulla assoluto. Una malìa simile esercita sul lettore il susseguirsi di conversazioni fatue e ripetitive, nocciolo pressoché unico e incontrastato di Afternoon Men di Anthony Powell, autore non unanimemente apprezzato e tuttavia tra i più rappresentativi della letteratura britannica del secolo scorso. Di lui ricordo soprattutto A Dance to the Music of Time, un storia sociale del cuore del Novecento articolata in dodici romanzi e spesso accostata, per mole e ambizione, a L’uomo senza di qualità e alla Recherche proustiana.

Afternoon Men, romanzo d’esordio del 1931, precede di un ventennio l’inizio di quest’opera monumentale, ma ne contiene già i germi, a cominciare dall’omaggio in esergo a Robert Burton, figura che in Dance riveste un’importanza cruciale, giacché è tra i primari oggetti d’interesse della sua voce narrate, Nick Jenkins, che è in fondo anch’egli un afternoon man, un uomo del pomeriggio. Su come debba intendersi questa curiosa espressione non c’è certezza assoluta. Semplificando, gli uomini del pomeriggio sono Uomini da cocktail (Elliot, traduzione di Franca Pece, pp. 234, euro 18,00). E in effetti proprio questo fanno i personaggi di Powell, bevono tutto il tempo e, nel bere, si perdono in ciance. Ma semplificare è un po’ mentire. Robert Burton aveva in mente qualcosa di più vasto e meno specifico quando accennò agli uomini del pomeriggio nella sua Anatomia della malinconia. Sarebbe dunque più giusto prendere l’espressione alla lettera e immaginarsi uomini dalla vita così poco piena che cominciano a poltrire già nel pomeriggio, perdendosi fino a tarda notte in attività puramente edoniste e insignificanti. Tra queste attività rientra certamente anche il bere e tuttavia il bere e le altre attività non sono che un effetto, la conseguenza di una condizione, di un umore, di una pigrizia, tanto morale che fisica, a sua volta frutto di una mancanza di scopo, dell’incapacità di appassionarsi.

Sebbene i contesti siano molto diversi, non è peregrino vedere negli uomini del pomeriggio una sorta di versione anglosassone degli indifferenti moraviani. Del resto, era l’umore dell’epoca: un’apatica frivolezza funestò la gioventù borghese vissuta a cavallo tra le due grandi guerre. Fu un tempo di ruggenti spensieratezze e tuttavia sporto sull’orlo di un abisso, effimero e disperato, voglioso di slanci e nondimeno cupo, quasi presago del tracollo imminente. Sotto molti aspetti fu un tempo pomeridiano, perché rischiarato da una luce che annunciava il buio. Non per nulla, la narrativa degli anni venti coltivò una speciale predilezione per le ambientazioni festaiole, i raduni mondani, le gite, i bar, le parole inutili. Anzi si potrebbe addirittura sostenere che la festa, il party novel, divenne un genere in sé.

Il romanzo di Powell si muove appunto in questo solco e in un certo senso lo chiude, perlomeno stando alla definizione che a suo tempo ne fu data: «il party novel che pone termine a tutti party novel». Il riferimento più immediato resta pertanto Fiesta, sebbene la pretesa tipicamente hemingwayana di scovare forme di ferina nobiltà e tragedia ovunque, anche nella dissipazione più insensata, è quanto di più lontano dal mondo dei perditempo di Powell, i quali bevono alcol di pessima qualità e non conoscono neppure il riscatto di una brutta fine.

Uomini da cocktail è un romanzo circolare. Come rimarca esplicitamente il titolo della parte conclusiva, Palindromo, fine e inizio si equivalgono, congiungendosi in un nulla di fatto, nella noia, nello scetticismo verso tutto e tutti.

Volendone sintetizzare il contenuto, potremmo limitarci a questo: William Atwater, giovane impiegato in un museo, insegue senza troppe convinzione le grazie di una ragazza, Susan Nunnery, che sceglierà invece di concedersi a un altro uomo; contemporaneamente, un amico di Atwater, un pittore di nome Pringle, anch’egli alle prese con problemi di amore, tenta il suicidio nuotando verso il mare aperto, ma viene salvato. L’esile se non inesistente intreccio rispecchia la visione che lo stesso Powell aveva di sé, un «modesto creatore di trame», nondimeno un filo narrativo c’è e potrebbe anche emergere, se il romanzo non fosse tanto infarcito di dialoghi di sicura irrilevanza.

Nel suo stolido registrare parola per parola queste conversazioni, la voce narrante sembra perseguire una forma di nuovo realismo, uno sguardo asettico, privo di qualunque afflato metafisico o anche soltanto emotivo. Il romanzo è molto lontano dal modernismo innovativo di opere come Le onde di Virginia Woolf, che vide le stampe in quello stesso anno. Per molti versi, Powell è proiettato oltre: adotta forme che appartengono all’avanguardia ma senza davvero crederci, quasi le sentisse già svuotate. «Non so se l’arte moderna vi interessa» dice un personaggio, un gallerista. «È una cosa alquanto insolita. La prima volta che si guarda un dipinto non si riesce a decifrarlo, si ha l’impressione che sia appeso sottosopra. Poi, dopo un po’, ci si fa l’occhio». La modernità degli uomini del pomeriggio non offre sconvolgimenti o rivelazioni, ma semplicemente abitudine. Come si fa l’occhio a un dipinto strano, così si fa l’orecchio a una conversazione trascurabile. Uno smodernista: probabilmente non c’è definizione migliore seppure orribile per questo Powell degli esordi. E a ben guardare, anche il suo realismo intriso di sottile comicità è di fatto uno snaturamento della realtà, come lascia intendere il nome improbabile del protagonista, Atwater, e la Londra quasi canicolare e «curiosamente grigia, simile al fondale di una scena cinematografica».

Neppure il desiderio sessuale sembra smuovere più di tanto gli indolenti personaggi del romanzo. La prima apparizione di Susan ha infatti su Atwater «l’effetto di un ritratto dipinto su uno sfondo, o meglio, su un paesaggio immaginario, con elementi stilistici appartenenti a due quadri diversi, su cui la figura sembra essere stata sovrapposta». Nondimeno la sua presenza effimera cattura all’istante l’attenzione tanto del futuro spasimante – ammesso lo si possa chiamare così – quanto degli altri presenti, quasi l’inconsistenza sia l’unico fascino che abbia senso subire, quasi non resti altro piacere che il farsi piacere l’insipido, l’inutile, il perituro, il pomeridiano.