Naziazeno Barbosa è una sorta di Buster Keaton brasiliano, uno di quegli omini da antiche comiche a sfondo tragico. Anche lui accelera e rallenta seguendo passo dopo passo l’impulso di una improvvisa illuminazione che pare a portata di mano, l’illuminazione decisiva per risolvere il suo impellente problema oppure, al contrario, si ferma come abbagliato da un lampo di realtà e di consapevolezza che ne schianta di colpo le illusioni e ne fa deperire le speranze. Naziazeno caracolla impavido e stremato fin dal primo mattino per le vie di Porto Alegre, si siede per qualche minuto in un caffè a riflettere e ad aspettare una risoluzione, va poi in un ufficio, riesce, torna in strada, ma i suoi movimenti e la sua andatura lo ricacciano in una specie di immobilità di fatto, senza pace, si potrebbe dire astratta e metafisica se non fosse che deve trovare quasi sessantamila réis, cioè l’equivalente di uno stipendio mensile, per saldare il debito col lattaio – immobile, s’intende, rispetto all’assillo che non gli dà pace e che lo costringe a supporre imprese miracolose che non gli si addicono e che addirittura feriscono la sua natura, egli non possedendo spirito alcuno di iniziativa e di intrapresa. Calcola strategie, tattiche che non reggono. Appunto: ««Elaborare un altro piano? Prova un vago senso di pigrizia. Ha la testa vuota, ma che allo stesso tempo brucia»». Barbosa anzi, che non è (per condizione e coscienza e morale) un borghese, maledice l’evenienza sua, l’urgenza che lo punge sino a farlo sanguinare, anche per un’altra ragione, se vogliamo più politica: si ritrova a considerare, per un momento, l’«uomo medio» fuor di dubbio «stupido», ma non di meno (date le circostanze) «invidiabile». Perché, va sottolineato, l’antagonismo di questo impiegatuccio è naturale, spontaneo, sorgivo, quasi animale.
Si tratta dunque di un antagonismo che non abbisogna di teoria, di militanza organizzata o di portato ideologico. Esso è impastato di stupenda indole contemplativa, di inflessibile vocazione all’ozio, anche di cialtroneria, di sperpero di tempo e persino di superbia, di alterigia, di nobiltà. Se va a giocare in una bisca clandestina finisce per perdere quello che possiede, se prova a rivolgersi a un usuraio è capacissimo di non trovarlo in casa, se si reca in un banco dei pegni arriva poco dopo l’orario di chiusura. Il divino fanfarone detesta «qualsiasi cambiamento» e ogni «nuova situazione lo colma di un’emozione triste». Insomma, «vorrebbe tutto sempre uguale, immutabile». Barbosa non può essere un rivoluzionario (la rivoluzione è fatica, dedizione) se non nel corpo, refrattario e irriducibile. Risiede proprio qui la sgusciante, sfuggente e tuttavia ferrea vitalità di questo eroe o (meglio ancora) anti-eroe novecentesco, se vogliamo la sua modernità di personaggio: proprio nel mentre da forsennato mima l’azione e la reitera senza soluzione di continuità, così assumendo su di sé il peso tragicomico del proprio destino e della realtà storica e concreta che lo determina, ecco scattare l’abiura a ogni forma e principio di realismo e il rifiuto viscerale di ogni dato empirico. Che è poi l’assunto anche stilistico del romanzo che lo vede protagonista, perduto in una Porto Alegre ammorbata d’umidità, schiantata da un caldo feroce, allucinata – una città osservata come dall’oblò di un sottomarino in deficit d’ossigeno.
Los Ratos – ora tradotto in italiano da Cecilia Martini per i tipi delle edizioni Nova Delphi (I topi, pp. 189, euro 14, 00), accompagnato da un’utilissima postfazione firmata da Giorgio de Marchis – fu pubblicato nel 1935. In quel medesimo anno, il suo autore, Dyonelio Machado (1895-1985), venne arrestato per la prima volta, processato e condannato per reati d’opinione. Nelle carceri, affollate di detenuti politici e di oppositori del regime parafascista e autoritario di Getúlio Vargas, Machado rimase per circa due anni (una seconda volta vi fu tenuto recluso nel 1942). Figura complessa e ricca di sfaccettature quella dell’autore de I topi. Oltre alla passione letteraria, alla pratica della scrittura narrativa (romanzi e racconti), non seppe mai rinunciare alla professione medica, al giornalismo e innanzitutto alla militanza attiva nel Partito comunista brasiliano (nelle cui file venne eletto deputato nel 1947, proprio pochi mesi prima della messa fuorilegge di quel raggruppamento politico). E fu, inoltre, uno dei maggiori divulgatori della psicoanalisi nel suo sterminato paese. Non volle dedicarsi completamente alla scrittura, e questa scelta gli costò più di qualcosa in quanto a ricezione. Diceva infatti, parlando di se stesso: «Io sono un ribelle. Io non appartengo al pubblico. Non sono in grado di scrivere a come sarà accolto, a quali reazioni susciterà. Non sono in grado di vendermi all’editore o al pubblico. Un po’ come il cane magro della favola, che non accetta la vita facile del cane grasso, perché dovrebbe farsi mettere il guinzaglio. Io francamente non sono un venduto. Vivere dei miei diritti d’autore sarebbe impossibile, finirei per fallire anche in quel poco di buono che ho fatto».
Quasi coetaneo dei due de Andrade, Oswald e Mário, Machado riassume nel suo romanzo più celebre e celebrato la ribollente temperie culturale che esattamente negli anni trenta andava trasformando la letteratura del Brasile in un prezioso laboratorio di tendenze e di punti di fuga e di vista, laddove confluivano insieme naturalismo, romanzo sociale, regionalismo, epica gauchista e forti tensioni moderniste. Nel 1908 moriva Machado de Assis, vale a dire il padre nobile della narrativa brasiliana, e contemporaneamente nasceva, quasi a significare un simbolico passaggio di consegne, João Guimarães Rosa, il cantore del grande sertao e, più avanti, tra l’altro, entusiasta ammiratore di Dyonelio Machado. Quattro anni dopo, nel 1912, veniva al mondo Jorge Amado – il colorato, l’avventuroso, il vitalissimo Amado. Se questa è la geografia fin troppo essenziale, giusta forse per un lettore non specialista, di quella variegata costellazione (dopo, molto dopo vi si dovrà aggiungere d’obbligo, a rendere meno esiguo e scarno il quadro d’insieme, almeno il nome di Clarice Lispector, nata nel 1920), occorre adesso domandarsi quale sia il posto de I topi dentro una mappa siffatta. A conti fatti, il romanzo di Machado mostra in sé tutti i segni salienti di una tensione, sostanzialmente e per fortuna irrisolta, tra le telluriche, percussive spinte innovative e sperimentali di quel decennio e la potenza della tradizione. Barbosa non è che un gaucho urbano, un avventuriero costretto a cavalcare nello spazio cittadino, soffocante, pressoché privo di paesaggio, in mezzo alla folla, quasi a rappresentare il tramonto di un’epoca e di un’epica, entrambe ottocentesche seppure gloriose. L’indubbia valenza sociale finisce inoltre per accucciarsi nel cuore di un ininterrotto flusso di coscienza lungo quanto una sola giornata del protagonista. Di qui, anche, il passo quasi onirico, sgranato, tra veglia e sonno, che da un certo punto in poi prende il sopravvento ed esplode, in specie nelle pagine finali. I sensi intossicati e friabili di Naziazeno raccolgono via via voci e rumori altrimenti impercettibili. È forse la sua umanissima coscienza a metterlo sul chi vive, in allerta, mentre i topi del capitale rosicchiano senza mai smettere lo spazio intorno a lui.