Il seme del naturalismo lanciato da Michelangelo Merisi all’inizio del Seicento germoglia a Napoli fiorente di riflessi e di spunti nuovi. L’esempio dei vicoli stretti e bui nelle Sette opere della Misericordia al Pio Monte aveva lasciato chiaramente intuire ai pittori del Viceregno che le risorse per recidere il filo con la prepotente retorica tardomanierista erano a portata di mano proprio nella caotica e immensa città che li ospitava. Allo stesso modo la Flagellazione in San Domenico Maggiore li avrebbe indirizzati verso una nuova possibilità di figurare in chiave locale, sgretolando le convenzioni e puntando alla struttura elementare delle cose.
Più che fonte di un condizionamento, allora, il verbo caravaggesco funge da stimolo per allargare gli orizzonti del Meridione e mettere in circolo un rinnovamento epocale. Rielaborando l’esempio di Caravaggio, pittori come Jusepe de Ribera trasformano la disgrazia sociale, nelle sue crudezze più esasperate, in materia artistica. Di mano in mano l’incantamento iniziale per la concretezza segue l’andamento di una radicalizzazione e, scavalcando i confini di una mera adesione al vero, fonda un nuovo misticismo in cui l’evocazione letteraria incontra il fatto di cronaca, e dove la storia sacra è sostenuta dai caratteri più espressivi della commedia popolare.
Di questa tendenza il cosiddetto Maestro degli Annunci ai pastori è sicuramente una delle personalità più affascinanti e misteriose. Per tratteggiarne un identikit l’Annuncio ai pastori del Museum and Art Gallery di Birmingham è un buon punto di partenza. Nella sua opera più emblematica (tanto da farne discendere, per un’intuizione di Ferdinando Bologna, pure l’appellativo critico) il Maestro si presenta a noi come un narratore magistrale. Il racconto per immagini del passo evangelico diventa nelle sue mani un fatto tangibile, la celebrazione della magnificenza di un misero vivere universale ed eterno: un solco di luce lunare devasta l’oscurità di una grotta e introduce una coppia di angioletti a un gruppo di pastori laceri e svuotati a scontare le fatiche di ogni giorno. La cerimonia religiosa interrompe a malapena il loro lento fluire. Come se la stanchezza fosse preponderante rispetto allo stupore per il miracolo in corso. L’atmosfera selvaggia e ruvida (proprio come la cortina di lana che ammanta le pecore intorno), la spontaneità dei comportamenti, lo slittamento di registro dall’assoluto al contingente si rivelano i tratti distintivi del quadro e accreditano per il suo creatore la stoffa di un naturalista verace.
A partire da questo quadro, sul conto del Maestro degli Annunci si sono accumulate, per analogia di stile e d’atmosfera, decine di altri dipinti. Il problema storiografico intorno all’anonimo pittore, impostato dal maestro degli studî che fu appunto Bologna (vedi, in particolare, la parte relativa nel saggio sul primo naturalismo napoletano scritto nel 1991 in occasione della mostra di Battistello Caracciolo), è rimasto però senza uno sbocco chiarificatore: chi si cela dietro l’oscuro Maestro? Di chi sono davvero figli i quadri che gli vengono assegnati? Nel suo ultimo libro – Il Maestro degli Annunci ai pastori e i pittori dal «tremendo impasto» (Napoli 1625-1650), Ugo Bozzi Editore, pp. 300, € 160,00) – Nicola Spinosa rimette a vivo la questione, offrendocene un’interpretazione davvero originale.
Archiviata la candidatura dello spagnolo Juan Do, le cui opere firmate difficilmente reggono il confronto con quelle del Maestro, Spinosa intravede per quest’ultimo un potenziale diverso, imprimendo alla sua vicenda critica una direzione evidentemente centrifuga. Quella del Maestro degli Annunci non sarebbe, infatti, una biografia individuale, ma la storia collettiva di un gruppo che tra gli anni venti e i cinquanta del Seicento portò avanti il verbo naturalista napoletano.
Del capofila della plurima essenza del Maestro degli Annunci ai pastori, il misconosciuto Pietro Beato, non è rimasto che qualche brandello di biografia. Quel tanto che basta per sapere che nacque nel primo anno del XVII secolo circa e che morì nel 1653. Intorno a questo ignoto pigmalione trovarono riparo molti giovani aspiranti pittori, e tra questi ci fu anche quel Bartolomeo Passante che – nato a Brindisi, a Napoli poco più che bambino e morto trentenne nel 1648 – ha stazionato a lungo nella primissima fila dei nomi indiziati per incarnare le veci del Maestro. In lui, scrive a distanza di un secolo Bernardo De Dominici, «si vede un carattere superiore nel ricercato disegno e nell’espression degli affetti, e più nell’esprimere la languidezza delle membra nella decrepità dei suoi vecchi, nella qual parte si può dire che fu inarrivabile».
Spinosa libera il Passante, e più in generale il collettivo dietro il Maestro degli Annunci, dalla giurisdizione riberesca. Le opere di questa compagine, pur muovendosi sul terreno comune del naturalismo innescato da Caravaggio, si differenziano da quelle dello Spagnoletto per una peculiare identità di stile, che assomma la tenacia verista al colorismo neoveneto, e anche per una specifica predilezione per la gente rude dei campi. Nell’universo figurativo del nostro sfuggente pittore e dei suoi collaboratori, infatti, i pastori e contadini dell’entroterra meridionale sono di casa. Che la scelta dipenda da una strategia di mercato, ovvero rispondere alla domanda di una committenza locale composta dai «signori e padroni dei monti e delle terre della provincia meridionale», oppure da altre ragioni, che per Spinosa non possono in ogni caso identificarsi con un’intenzione di denuncia sociale, come pure è stato proposto in passato, non è dato saperlo.
L’autore offre del corpus del Maestro degli Annunci una catalogazione accurata, dando forma a tre gruppi di opere: un primo, da assegnarsi non senza incertezze al solo Pietro Beato (con quadri come il Ritorno del figliol prodigo della City Art Gallery di Bristol); un secondo nucleo che, frutto della negoziazione tra più personalità (tra cui il Passante), testimonia un deciso cambio di passo linguistico, nella direzione di una più misurata chiarezza (come documenterebbe il Martirio di san Placido del Museo dell’Abbazia di Montserrat); e un ultimo gruppo, infine, a connettere quadri come la Fucina di Vulcano già a Weimar e lo Studio del pittore della Fondazione Masaveu a Oviedo nelle Asturie per un senso comune di maggiore compostezza.
In attesa che le tesi avanzate entrino in circolo e siano sottoposte al vaglio degli studî, non resta che concordare con Nicola Spinosa: i quadri del Maestro degli Annunci ai pastori davvero «costituiscono uno dei capitoli più rilevanti della storia della pittura a Napoli nel primo Seicento». Un capitolo, tutt’altro che secondario, della storia della pittura europea.