All’alba di ieri il terrore è tornato al Cairo. Quattro diverse esplosioni hanno riportato la città indietro nel tempo, innescando sanguinosi scontri in tutto l’Egitto. Diciannove persone sono rimaste uccise, quasi cento i feriti. Colpito il cuore antico della città: il quartiere di Helmeya a due passi dalla caserma di Abdeen. È tornato così il clima degli anni Novanta, quando si susseguivano esplosioni a ripetizione, opera degli islamisti radicali. Anche questa volta nel mirino degli attentatori ci sono le strade più frequentate dal turismo internazionale. Era il febbraio 2009, quando una giovane turista francese venne uccisa mentre camminava con la sua scolaresca per le vie del Cairo, affollate di stranieri. La bomba allora detonò alle porte della moschea Imam Hussein tra i vicoli di Khan el Khalili.

A essere prese di mira ieri prima di tutto le stazioni di polizia di Abdeen, Dokki e Talbiya. Le esplosioni sonno state seguite da una detonazione alle porte del cinema Radobis a Giza (dove è stata colpita anche una fermata della metropolitana, mentre pochi giorni fa un attentato era stato sventato all’ingresso della stazione della metro di Zamalek). Secondo le forze di sicurezza negli attacchi sarebbero stati usati 500 chilogrammi di esplosivo. Dopo le deflagrazioni decine di manifestanti si sono diretti verso il centro del Cairo gridando «Morte ai Fratelli musulmani». Il presidente egiziano ad interim Adly Mansour ha parlato di «pene severe» per chi ha «pianificato, partecipato e finanziato» l’attentato. Dal canto loro, i Fratelli musulmani hanno bollato come «atti di codardia» le esplosioni di ieri, ribaltando le accuse e puntando il dito contro le forze di sicurezza, colpevoli di «usare bombe per reprimere le proteste anti-governative».

A rivendicare gli attentati, come ripercussione agli arresti sommari e alla detenzione di islamisti negli ultimi mesi, è stato il movimento jihadista, Ansar Beit Al-Maqdis. Lo stesso gruppo che viene accusato dalle forze di sicurezza egiziane di essere coinvolto nelle violenze nel Sinai e nell’attentato di Mansoura del 24 dicembre scorso che ha determinato la dichiarazione della Fratellanza come movimento terroristico. «Questo attentato è diretto contro le forze di sicurezza, infedeli e sanguinarie», recita la rivendicazione.

In seguito all’annuncio degli attentati, manifestazioni e scontri sono scoppiati in tutto il paese. Prima di tutto nel quartiere, roccaforte della Fratellanza, di Medinat Nassr. Gli islamisti hanno chiesto di avviare un nuovo sit-in poco lontano da piazza Rabaa al Adaweya, sgomberata nel sangue nell’agosto 2013, mentre elicotteri militari sorvolavano il quartiere. Altri due dimostranti pro-Morsi sono rimasti uccisi nel corso di duri scontri a Beni Suef, a sud del Cairo, un islamista è stato ucciso a Damietta. Proprio alla vigilia degli attentati, il presidente ad interim Mansour aveva dichiarato la «fine dello stato di polizia» in Egitto. L’ex giudice aveva ribadito il suo sostegno alle forze di polizia nel loro ruolo di mantenimento della sicurezza e della stabilità. In realtà, proprio le stazioni di polizia sono finite nel mirino dagli attentatori. Mentre i vertici delle forze di sicurezza, tra cui il ministro dell’Interno Mohammed Ibrahim, che lo scorso settembre ha subito un agguato nel quale è rimasto illeso, vengono accusati dagli islamisti di aver ordinato una sorta di vendetta contro gli affiliati al movimento.

L’allerta di forze di sicurezze e ambasciate estere al Cairo è alle stelle. Gli attentati di ieri hanno segnato la vigilia del terzo anniversario delle rivolte che il 25 gennaio 2011 portarono alla destituzione dell’ex presidente Hosni Mubarak. Gli islamisti hanno promesso una mobilitazione a oltranza in vista dei quattro processi in cui l’ex presidente Mohammed Morsi è imputato con le accuse di spionaggio, incitamento alla violenza e corruzione. Ma l’ondata terroristica è anche la prima risposta ai risultati del referendum costituzionale che hanno determinato l’approvazione della Carta fondamentale, voluta dai militari lo scorso 15 gennaio. I Fratelli musulmani, che con la cancellazione di partiti basati sulla religione sono stati estromessi dalla partecipazione politica, hanno immediatamente denunciato la scarsa affluenza, ferma a poco più del 30%: sembrano improvvisamente spariti i presunti «trenta milioni» che i militari dicevano essere scesi in piazza il 30 giugno 2013 per chiedere le dimissioni di Morsi.

Le violenze di ieri suonano poi come un avvertimento per il ministro della Difesa. Il generale Abdel Fattah Sisi ha annunciato le sue prossime dimissioni dalla carica che ricopre per candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo marzo, incassando il sostegno del premier ad interim Hazem Beblawy e dell’ex candidato alle presidenziali Amr Moussa.

Dopo tre anni, resta poco del sogno di giovani, migranti, donne, venditori di strada, ultras e lavoratori che avevano trovato in piazza Tahrir il simbolo del loro riscatto. Il Consiglio supremo delle Forze armate con procedure elettorali affrettate ha intercettato il movimento. Gli islamisti, che hanno vinto le prime elezioni democratiche nel paese, si sono dimostrati incapaci di attuare riforme politiche e sociali efficaci. Infine, l’accordo tra militari, giudici e uomini del vecchio regime ha fermato ogni richiesta di cambiamento riproducendo la relazione tra stato e società dei trent’anni di autoritarismo di Mubarak.