C’è un anniversario che nessuno ha ancora ricordato. Né durante l’annus horribilis Venti Venti – come usa scrivere – né durante l’ormai caduco Venti Ventuno. E non è il centenario di un artista, di un poeta, di un compositore: ce ne sono sin troppi in circolazione… È invece il centenario di un’epoca, di un periodo storico, ad essere più precisi di un decennio: gli anni Venti. Non anni Venti qualsiasi s’intende, non quelli del Sette o dell’Ottocento, meritevoli, tutt’al più, di un ricordo, bensì quelli del secolo in cui molti noi (post millennial esclusi) sono venuti al mondo: il Novecento.

Certo, posto che abbia un senso celebrare un tempo storico e non un tempo individuale, abbiamo ancora nove anni davanti a noi per organizzare le commemorazioni. Però è forse il caso di iniziare a fare i conti, a cent’anni giusti dal loro turbinoso inizio, con i Roaring Twenties, con the jazz age, come l’ha chiamata Francis Scott Fitzgerald.

E perché mai, si potrebbe chiedere, gli anni Venti del secolo ventesimo meritano di essere festeggiati? Perché avrebbero più diritto di «celebrazione» dei loro parenti più prossimi, gli anni Dieci o gli anni Trenta? Perché se si scorre, anche distrattamente, la lista spicciola delle «prime» avvenute durante il decennio (la prima esecuzione di un’opera musicale, la prima pubblicazione di un romanzo, la prima visione di un dipinto, la prima uscita di un film) ci si rende conto che i ruggenti Twenties hanno letteralmente sconvolto, forse come nessun’altra porzione di secolo, i canoni estetici del Novecento: nel dominio delle «musiche del mondo», innanzitutto, per rispettare la ragione sociale di questa rubrica, ma anche in quello delle discipline sorelle. Insomma, è proprio durante gli anni Vénti che soffiano, per una singolare coincidenza lessicale, i più sonori vènti di rivoluzione. Nel cuore del primo anno del decennio, ad esempio, il 1920, Igor Stravinskij, con il suo stupefacente Pulcinella, guarda le musiche del passato (nel caso specifico il Settecento italiano) con il cannocchiale rovesciato del distacco, della lontananza, di un’algida cristallizzazione delle forme e fonda così, quasi inconsapevolmente, il canone tipicamente novecentesco dello «straniamento».

Che pochi anni dopo, tra il 1926 e il 1928, Brecht e Weill porteranno a compimento inserendo nei loro due capolavori teatrali (L’Opera da tre soldi e Ascesa e caduta della città di Mahagonny) le tecniche del verfremdung effekt, il cosiddetto «effetto straniamento», introdotto da Viktor Sklovskij a metà degli anni Dieci. Nello stesso identico volgere di anni Edgar Varèse (Hyperprism è del 1923, Integrales del 1925) smette di «comporre con i suoni» e inizia a «comporre i suoni»: per lui il suono si muove nello spazio acustico esattamente come un raggio di luce si muove nello spazio visivo.

E cerca quindi di trasporre sul piano sonoro l’effetto che un raggio luminoso subisce attraversando un prisma: il risultato è la scomposizione sistematica di tutte le componenti del suono, ossia una musica fatta di frammenti, timbri isolati, cellule, silenzi. Una autentica «cesura epistemologica» che si ricomporrà soltanto con l’avvento, trent’anni più tardi, della composizione elettroacustica.

Mentre Varèse, dal suo esilio nordamericano, «esplode il primo colpo nella battaglia per la liberazione del suono», nel cuore della vecchia Europa Arnold Schönberg, con la Suite per pianoforte op. 25 del 1923, mette a punto il suo «metodo per comporre con dodici suoni in relazione soltanto tra di loro», la cosiddetta dodecafonia: non certo una «rivoluzione» – come dice lui stesso – bensì il raggiungimento di un nuovo ordine, un argine al caos: assai simile, per paradosso, ai diversi neoclassicismi che si stavano diffondendo in tutto il continente.

Straniamento, frammentazione, silenzio, scomposizione, ordine versus caos: forse il Novecento, se mai si possa individuarne una genesi cronologica, è nato proprio durante i formidabili anni Venti. E probabilmente non è ancora finito.