Per cominciare: date e dati. Tra il 1969 e il 1973 Alberto Magnaghi, architetto e professore presso il Politecnico di Milano, milita in Potere Operaio, divenendone, nel 1970, segretario. Il 21 dicembre 1979 è arrestato nel quadro del famigerato «7 aprile». È carcerato prima a San Vittore (’79-’80) e poi a Roma, a Rebibbia, fino al settembre dell’82. Il processo, apertosi nell’83, si chiude per Magnaghi nel 1987, con l’assoluzione e il reintegro nell’insegnamento universitario.

Questa, del libro Un’idea di libertà. San Vittore ’79 – Rebibbia ’82 (DeriveApprodi, pp. 207, euro 15) è «poco più» che la cornice. Perchè questo «diario dal carcere» è un testo, certo, attraversato e come imbevuto di politica, ma dove della sua minuta cronaca appare solo l’eco: il carcere – che è il suo centro e il suo contesto – è sì infatti il coriaceo diaframma che da quella politica – che ha potuto coincidere, alla lettera, con la vita – isola e esilia, ma esso è insieme il laboratorio dove – sopportata una vera e propria «metamorfosi» – si potrà sperimentare finalmente un’altra politica (e dunque, forse, una volta usciti, perfino un’altra vita).

Bisogna sgombrare il campo dagli equivoci: questo effetto, del carcere, non è un beneficio; solo una possibile conseguenza, un’impensata chance. O meglio: è il distillato che lo sforzo cocciuto e certosino adoperato per resistervi, a esso, infine, può essere estorto. Il libro è scandito in tre tempi: stazioni di un addomesticamento del luogo, di una trasformazione del tempo e di una intensificazione dei sensi. Se il carcere e l’isolamento si impongono innanzitutto a Alberto Magnaghi come mortificazione assoluta e intrascendibile dei sensi, soltanto una disponibilità alla modificazione, un esercizio di concentrazione del sensibile (la «metamorfosi», appunto) potrà aprire a una sperimentazione – sensualissima e insieme spirituale – destinata a durare e a oltreppassare – trasfigurandola senza salvarla – l’esperienza stessa della reclusione. Un’idea di libertà, appunto.

Il diario di Magnaghi srotola la cronaca di un apprendistato: quello lento e metodico a un altro uso dello spazio e del tempo, quando, e l’uno e l’altro, sono sottratti proprio perché esistono solo in quanto imposti, coatti. Stile e politica si indeterminano e producono una scrittura della pura intensità: un’energetica, che, sostenuta di disciplina e alimentata di concentrazione, promette felicità, finendo inaspettatamente con l’offrirla. È una scrittura del minimo spazio e dell’indefinito tempo, che, decidendo di smettere – con un atto della volontà che appare come tra tutti il più fisiologico – di dare testate al muro, si muta in pensiero intensivo e produttivo, in esercizio di attenzione e riabilitazione del desiderio. Resistere alle oscenità del carcere, all’oscenità che esso è, vuol dire disattivarne il dispositivo, la logica (se ce n’è); far girare, l’uno e l’altra, a vuoto: essergli contro, senza nulla fare proprio; non rispondergli (né corrispondergli), inventando, proprio lì, tutt’altro.

Non è un caso che a presidiare l’entrata e l’uscita del libro (dunque, anche: del carcere) stiano un cammello – tolto da Nietzsche e messo in esergo – e un aliante. Il minimo peso e la massima leggerezza, l’attraversamento di un deserto e l’esercizio del volo senza attriti altro non sono che «figure» di una vita sensibile che desidera e spera e ragiona. Una vita che «incarna» una resistenza materiale e spirituale; che applica, scoprendola, una disciplina sensibile, sensuale; perciò confondendo idea e pratica. Per paradossale che possa apparire, l’elegia materialista di Magnaghi è anche un catalogo di mondanissimi esercizi spirituali: un protrettico vivo e vitale che inventa un altro tempo e un altro spazio nello spazio-tempo della contro-vita.

L’operazione alchemica che deve prodursi è quella che permette a un corpo di trascorrere dal minimo al massimo di espansione sensibile. Per produrre l’esorcismo occorre niente meno che una teologia spuria e gaudiosa: che poi altro non è se non un’etica, rigorosissima, inflessibile, perfino; e, insieme, indefettibilmente, tenera.

Questo non è però solo il diario di un corpo: è anche l’atlante di una comunità possibile. L’esercizio metamorfico, per riuscire, per non ridursi a idiota catarsi, deve accordare i corpi, così come i cervelli, assieme. Il carcere, da teatro di troppa miseria, è costretto a essere anche il luogo di una politica – apocrifa, minima – dei corpi; lì dove potrà prodursi l’invenzione di quei mezzi capaci di restituire ai nostri corpi il loro paesaggio. La metamorfosi è consegnata all’ambivalenza perché non annuncia redenzione, ma promette molto di più: imparare un nuovo dominio del nostro deserto; coltivare il tempo proprio nel tempo nemico. Fuori da lì, certo; ovunque e per un bel po’, almeno: «Tempo dell’amore. /Tempo della comunità. /Tempo del riconoscersi in lotta. /Tempo del paesaggio proprio. /Tempo della costruzione di alianti».