Il 20 gennaio 1936, dopo la morte di Giorgio V, Edoardo VIII ascese per diritto di sangue al trono britannico e per l’occasione vennero coniate sei monete d’oro con il suo profilo. Dopo neanche un anno – come si sa – essendogli stato vietato di sposare la donna che amava, Wallis Simpson, nota per la vita mondana e con ben due divorzi alle spalle, il monarca rinunciò al trono e la sua abdicazione segnò l’inizio di una profonda crisi istituzionale dovuta alla secolare tradizione che legava, e lega tuttora, la casa reale e la Chiesa anglicana.

Delle sei monete d’oro, mai messe in circolazione, una dà l’abbrivio al romanzo dell’irlandese Anne Griffin, Quando tutto è detto (nell’elegante traduzione di Bianca Rita Cataldi, Atlantide, pp. 288, € 24,00) finendo, per un evento fortuito, nelle mani di un servitore di Edoardo VIII, che a sua volta, per ripianare un debito, la cederà a Hugh Dollard, possidente terriero appartenente a una delle due famiglie protagoniste della storia. Prende avvio da qui un intreccio che lega alle vicende della famiglia Dollard quelle degli Hannigan, il cui figlio di dieci anni, Maurice, va a lavorare come bracciante, nella «grande casa» di Rainsford, nella contea di Meath.

L’arco temporale coperto dal romanzo si estende dal 1940 al 2014, ma il tempo romanzesco è in realtà compresso in quattro ore e mezza. Voce narrante, quella dell’ex bracciante Maurice, ormai ottantaquattrenne, che a distanza di due anni dalla morte della moglie entra nel bar della «grande casa» alla quale era approdato da ragazzo, ora convertita nel Rainsford House Hotel da un membro della famiglia proprietaria: «Sono qui per ricordare: tutto ciò che sono stato e tutto ciò che non sarò mai più» riflette Maurice, alla vigilia della celebrazione di quello che sarà un rito liberatorio: si siede al bancone, di fronte a un enorme specchio, e si appresta a cinque brindisi in onore delle cinque persone che gli sono più care: il fratello maggiore, la figlia Molly, morta subito dopo la nascita, la sorella della moglie, malata di malinconia e attratta dalle monete e da ciò che luccica, il figlio Kevin, per il quale avrebbe desiderato un futuro diverso, accanto a sé, a lavorare la terra, e l’ultimo per Sadie, moglie esemplare.

È una resa dei conti serena, quella di Maurice, una confessione che scontorna il suo universo emotivo; c’è tutta la gioia e la fatica di ogni metro percorso, ci sono i momenti perfetti, le soddisfazioni finanziarie, ma anche i rimpianti, i sensi di colpa, i segreti e i dilemmi di un uomo scontroso e pragmatico che affronta la solitudine e l’inesorabilità del tempo senza cedere all’autocommiserazione.

Nella scrittura di Anne Griffin non c’è spazio per il moralismo, né per l’eccesso stilistico; di contro, sono il nitore e la pacata potenza della lingua a conferire naturalezza e statuaria fluidità al progressivo disvelamento dell’esistenza di Maurice e lucentezza introspettiva ai personaggi via via evocati. Se per un verso il romanzo sembra imporsi con il passo e il fiato di un classico ottocentesco, per altro verso il movimento narrativo sembra obbedire a una rete di connessioni scomposte dettate dalla memoria.

Dal fronte dei ricordi, emerge una Irlanda cattolica e rurale, lontana dalla nazione spersonalizzata che ha descritto Sally Rooney, e vicina – invece – a quella viscerale di William Trevor, un paese di contee sperdute, dove l’ufficio postale è ospitato nel retro di un’edicola, dove ci si ritrova la sera in pub chiassosi, dove si beve molto tè, birra, whisky, dove ci si veste di tweed e si va a messa la domenica, dove il pettegolezzo si rincorre per le strade, dove le nuvole liberano acquazzoni «di quel tipo che ti fa pensare che il tetto della stalla cederà, alla fine», e dove anche l’amore tra genitori e figli è «del genere irlandese: gentile, riservato e in imbarazzo».