Abbiamo incontrato l’antropologo Luigi Lombardi Satriani alcuni mesi prima della sua scomparsa avvenuta nel maggio di quest’anno, per farci raccontare di Annabella Rossi, antropologa e fotografa da lui conosciuta fin dalla metà degli anni Sessanta quando incaricato di Storia delle Tradizioni popolari a Messina la sua dispensa Il folklore fu l’occasione che li fece incontrare e iniziare una importante collaborazione. Tra le prime documentariste in ambito antropologico, realizzò con Mingozzi e Barbati per Rai 2 Sud e e magia, viaggio nei luoghi demartiniani.

Dall’incontro con Ernesto de Martino, nel 1959, Annabella Rossi trae istruzioni per il proprio lavoro di ricerca sul campo. Ne consegue una consapevolezza sui rapporti tra classi dominanti e subalterne, di cui parla nell’articolo del ’71 «Realtà subalterna e documentazione»: «Questa realtà deve essere documentata, per essere conosciuta, per circolare, per smascherare chi la copre per precisi fini politici». È ancora valida oggi l’asserzione?
Nella maturazione antropologica di Annabella, l’incontro con Ernesto de Martino è stato decisivo. A de Martino, si sa, si deve il rinnovamento degli studi demoantropologici nel nostro Paese, sia perché coniugò rigorosamente tensione scientifica e impegno politico, sia perché testimoniò come nel lavoro antropologico sia fondamentale la ricerca sul campo, pur accuratamente preceduta da un’adeguata preparazione teorica, con la ricognizione attenta della letteratura scientifica sull’argomento trattato. Ernesto de Martino, alla fine degli anni Cinquanta, stava costituendo l’équipe con la quale si sarebbe recato in Lucania per condurre le ricerche in loco sul pianto funebre, già studiato nel planctus romano della prima cristianità, per individuare le vestigia che di tale pianto si potevano ritrovare in quell’estremo lembo dell’Italia. Si tenga presente che il sistema viario e delle comunicazioni era profondamente diverso da quello attuale e che la terra lucana appariva lontana come oggetto di investigazione etnologica a somiglianza delle popolazioni extraeuropee, care all’etnologia. Facevano parte dell’équipe demartiniana, tra gli altri, Clara Gallini, allora sua assistente a Cagliari; Giovanni Jervis, etnopsichiatra, coinvolto per i risvolti psichici; Diego Carpitella, etnomusicologo, cui era demandata la registrazione dell’universo sonoro. De Martino era studioso e intellettuale finissimo e contemporaneamente uomo spregiudicato nei comportamenti e nello sfruttare gli altri: avendo bisogno di una macchina per recarsi con la sua équipe in Lucania, accettò che Annabella comprasse una macchina e la mettesse a disposizione; soltanto che lei, per comprare la macchina, aveva venduto la Lambretta con la quale si spostava allegramente per le vie di Roma. Sono dettagli minimi, quasi al limite del pettegolezzo, ma a me sembrano utili a ricordarsi, perché restituiscono la temperie politico-culturale di una certa epoca, un certo tipo di entusiasmo, una certa maniera di guardare il mondo, le cose, sé stessi e gli altri.

Negli anni Sessanta Annabella effettua nel Sud Italia ricerche sulla religiosità popolare, arricchite e confluite nei saggi Le feste dei poveri e Lettere da una tarantata. Con lei principia l’antropologia visiva in Italia ovvero l’immagine-documento?
Annabella è stata una fotografa eccellente, con un suo linguaggio specifico, un’attenzione ai volti, alle mani, alle persone ritratte sempre con amorevole cura. Non mi sentirei però di definirla fondatrice dell’antropologia visuale in Italia. C’è in quegli anni un fiorire di documentari demoantropologici che arricchiscono la storia del documentario scientifico italiano. Come fondatori dell’antropologia visiva in Italia penserei a Francesco Faeta e a Lello Mazzacane, i cui contributi teorici e demoantropologici, oltre che una pratica continua di esperienze sul campo, sono i veri protagonisti di tale fondazione.

Per Annabella il folklore è l’estrinsecazione di strati sociali con cui entrare in simbiosi. Basti pensare che con Lettere da una tarantata – esempio ante litteram di antropologia dialogica – l’analisi dell’evento è cadenzata da una tarantata e dal suo vissuto, al quale è stato possibile avvicinarsi per la prima volta. Cosa aggiungeresti a suddetta analisi, accostata alla situazione attuale?
Annabella sicuramente aveva tale carica umana che riusciva a entrare in contatto con i protagonisti del mondo popolare, realizzando con loro una sorta di empatia, una corrispondenza in cui ambedue si ponevano alla pari, senza quella superiorità distante che spesso intercorre tra intervistatore e intervistato, tra chi resta comunque ancorato alla cultura dominante e l’altro, l’indagato che resta reificato nella sua condizione di oggetto di attenzione, di investigazione. Nel 1969 ci recammo – su sollecitazione di Franco Ferrarotti, direttore de La critica sociologica – nella Valle del Belice, colpita da un tremendo terremoto, che nella sua furia devastatrice fece molte vittime. Realizzammo una serie di interviste. Un giorno, dopo aver intervistato un terremotato, io andai avanti per continuare il lavoro delle interviste; Annabella restò indietro e quando io mi volsi per sollecitarla, mi accorsi che stava piangendo a causa della condivisione del dolore con la persona con la quale aveva appena parlato. Questa capacità di entrare presto e fortemente in contatto con l’altro, instaurando un forte rapporto personale, Annabella l’ha sempre realizzato. Penso al rapporto con Michela Margiotta (l’Anna delle Lettere da una tarantata), sviluppatosi con tale carica di empatia da indurre in errore Michela che ritenne, ingenuamente, che l’attenzione della ‘signorina di fuori’ fosse non solo scientifica e umana ma avesse una connotazione erotica che non era affatto nella dimensione dell’attenzione rivolta da Annabella. Tale errore fu all’origine della brusca interruzione che Michela diede al rapporto con Annabella, con la quale non volle più avere alcun contatto.

Annabella con i viaggi nel Salento e nel Meridione indaga la condizione della realtà subalterna. Attualmente ci sono antropologi che entrano in relazione diretta con la collettività, carpendone le mutazioni in atto?
Annabella ha indagato, come ho già sottolineato, con rigore e passione la condizione dei protagonisti della realtà subalterna. Anche attualmente ci sono antropologi che entrano in relazione diretta con la collettività, cogliendone le linee di mutamento; preferisco non fare un elenco dei nomi, che sarebbe comunque incompleto. Si va dagli antropologi di più antica generazione, che continuano a indagare la realtà, ovviamente secondo la propria strumentazione teorica e metodologica, agli antropologi di più giovane generazione che indagano la realtà secondo i propri orientamenti e le proprie prospettive. Sarebbe impietoso, e anche un po’ ingiusto indicare ingenuità o esiguità nell’approccio teorico; sono mali generazionali che passano in fretta. Importante è che si voglia studiare, studiare, ancora una volta studiare.

Cosa dovrebbe evidenziare oggi un antropologo in merito a una festa popolare o a un rituale?
Non è possibile, né sarebbe utile fissare una norma a riguardo valida per tutti: ogni studioso deve poter porre in risalto più che meglio crede gli aspetti di una festa popolare o di un rituale oggetto della sua indagine. Importante è che la faccia in onestà di intenti e senza presunzione o fughe in avanti, con l’unità metodologica e la modestia nel porre la propria voce accanto a quella degli altri, che secondo me deve caratterizzare ogni valido antropologico.

Perché una personalità energica come Annabella Rossi è spesso dimenticata dagli antropologi? Cosa rimane della sua produzione scientifica e del suo insegnamento?
Forse Annabella ancora oggi non è ricordata come si dovrebbe, perché è stata un personaggio scomodo, come ho posto in risalto finora. Rimane della sua produzione scientifica e del suo insegnamento testimonianza di una curiosità continua e onnipervasiva per il mondo popolare e per il Mezzogiorno, oggetto di un amore assoluto. Anni fa, riflettendo sulla sua esperienza scientifica, sulla sua personalità, ho sostenuto che se per Elio Vittorini poteva essere detto «Sardegna come un’infanzia», per Annabella Rossi poteva essere detto «Mezzogiorno come un amore».