I personaggi pubblici e le aziende di cui racconta le gesta, Anna Wiener sceglie di non chiamarli per nome, e non indica quasi mai date precise: nella sua testimonianza autobiografica sulla Silicon Valley, La valle oscura (traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, pp. 309, € 19,00) questo comporta il ricorso frequente a formule allusive più o meno trasparenti o spiritose. Facebook, ad esempio, è «il social network che tutti dicevano di odiare ma a cui nessuno riusciva a smettere di loggarsi», Amazon è «il grande negozio online che aveva aperto negli anni Novanta vendendo libri sul web», e così via. Per di più, bisogna districarsi tra le formule per ottenere una precisa datazione della vicenda: tutto ha inizio, infatti, quando il social network di cui sopra viene quotato in borsa per circa cento miliardi (maggio 2012) e si conclude quando «la startup open source» (GitHub) per cui l’autrice ha lavorato tre anni viene acquistata dal «conglomerato informato di Seattle dalla querela facile» (Microsoft) per la cifra complessiva di 7,5 miliardi (giugno 2018).

Nulla di unico
In questo breve lasso di tempo, la giovanissima protagonista riesce a compiere un percorso circolare, a suo modo istruttivo e esemplare, del mondo ipermoderno. Prima decide, sia pure a malincuore, di lasciare l’universo colto, squattrinato e un po’ spocchioso dell’editoria newyorchese per avventurarsi in quello tanto più superficiale, competitivo e milionario delle startup emergenti; poi esegue, tra alti e bassi, una serie di spostamenti geografici e professionali che permettono, a lei e al lettore, di vedere da vicino alcuni dettagli, spesso inaspettati, del mondo che sta alle spalle del web nel quale siamo tutti più o meno irretiti. Infine, si decide a lasciare il lavoro per tornare all’antica passione della scrittura, non senza il conforto di un piccolo gruzzolo ottenuto dalla vendita del suo pacchetto minimale di stock option.

Al di là dello stile spigliato, dell’umorismo disincantato e del cinismo gentile, il cuore del libro sta evidentemente nella promessa di offrire una testimonianza da insider su un mondo per tanti aspetti nebuloso e inquietante, nel quale ci si può ritrovare miliardari a vent’anni e dal quale, d’altra parte, si esce spesso talmente scoppiati e burnout da non essere più idonei nemmeno per le esperienze umane più basilari. E la scoperta più sorprendente, una volta chiuso il libro, è che, a dispetto dei tecnicismi e delle cifre a sette zeri, non c’è al fondo di questa «valle oscura» nulla di veramente unico, nulla che non evochi un qualche precedente nelle tante epopee tragicomiche dell’universo impiegatizio.

Il fascino algido dell’amministratore delegato, il cofondatore della startup editoriale che scrive Hemingway con due m, le battutacce sessiste e la gita aziendale sui campi da sci: tutto sembra inquadrabile in uno spaccato compreso tra Fantozzi e Bridget Jones. Sarebbe un errore però restare troppo delusi da un simile risultato perché, in un certo senso, il messaggio più istruttivo di questo memoir sta proprio nella sua mancanza di eccezionalità. O, in altre parole, nella sua capacità di far emergere tratti, attitudini e modi d’essere che appartengono, con minime varianti, alla totalità di quella che potremmo definire la forza-lavoro ipermoderna, a qualunque latitudine e a qualunque grado della scala sociale, dal più infimo al più prestigioso.

Un confronto tra due estremi opposti aiuterà a chiarire il concetto. Qualche anno fa, la stessa Adelphi ha pubblicato, col titolo Operaie, una ricerca di Leslie T. Chang sulle maestranze femminili di Dongguan, centro manifatturiero cinese cresciuto a dismisura in pochi anni, fino ad accogliere più di dodici milioni di persone.

La città, essenzialmente, è una distesa di fabbriche, spesso talmente grandi da includere al proprio interno dormitori, negozi e centri di ricreazione per un esercito di dipendenti, tra i quali un plotone di ragazze giovanissime, appena sbarcate dalle zone rurali più povere dell’entroterra cinese.

Siamo insomma, a tutti gli effetti, agli antipodi della baia di San Francisco, dove sgomitano ingegneri informatici superqualificati e i valori immobiliari sono i più cari al mondo. Eppure, in molti tratti salienti, il racconto di Wiener assomiglia talmente a quello delle operaie intervistate da Chang da far quasi pensare a un gioco di sovrapposizione, come un cartone animato in cui la stessa figura resta immobile, mentre la scena alle sue spalle assume contorni e colori del tutto diversi. Tanto l’una quanto le altre si lasciano alle spalle ogni certezza per avventurarsi senza paracadute in un mondo sconosciuto e potenzialmente ostile. L’una e le altre sanno che non ci sarà distinzione possibile tra il lavoro e la vita, che occorre giocarsi ogni cosa lasciando e prendendo incarichi del tutto eterogenei, consapevoli di essere del tutto sprovviste delle più elementari competenze richieste ma determinate, nonostante questo, a farsi strada e a non guardarsi indietro. Impareranno a loro spese, l’una e le altre, che occorre fare prima ancora di apprendere, che più che saper fare conta saperci fare, sapersi vendere e spacciarsi per ciò che non si è ancora, «saper creare il proprio lavoro e farlo apparire indispensabile, anche se strutturalmente inutile».

Paragoni con le operaie cinesi
La protagonista della Valle oscura viene licenziata in un caso, si licenzia in un altro, e supera una selezione grazie alla sua accidentale abilità nel compilare un formulario per la fidanzata del futuro capo. Proprio come racconta, in Operaie, Li Pengjie, che passa dalla catena di montaggio a una scrivania di segretaria grazie alle sue attitudini calligrafiche, del tutto inutili ovviamente alla tastiera di un computer. Nell’uno e l’altro caso, il miraggio della ricchezza e del successo è onnipresente, sfiora a caso un’amica o un vicino e poi sparisce, lasciando il dubbio che il più ordinario dei sogni (una casa, una famiglia) sia divenuto altrettanto irrealistico delle più irrazionali fantasie.

Le differenze restano, ovviamente, e sono enormi, ma questi racconti in prima persona spostano l’accento su una catena di micro-analogie che non potremmo cogliere con altrettanta nettezza usando concetti astratti come «globalizzazione» o «precariato». Ed è facile immaginare che gli stessi tratti, a grandi linee, marchino una miriade di figure affini, disseminate in ogni luogo del pianeta. Beninteso, non si tratta di una nuova working class globale e men che meno di un nuovo soggetto rivoluzionario. La cura di sé, in queste ragazze, è decisamente più forte di ogni legame con le proprie simili, e l’esigenza più sentita non è quella di cambiare il mondo ma, più prosaicamente, quella di tenersi a galla.

Testimonianze del genere però mettono in chiaro che l’ordine sociale ipermoderno poggia su un fiume carsico di vitalità, di ambizioni e di sogni, che non sarà sempre facile pilotare verso l’obbedienza. Non si può escludere che, un giorno o l’altro, la sua pressione non apra qualche crepa nella superficie e non la inondi con la propria forza.