Sessanta anni fa guardando uno spettacolo dell’Opera di Pechino, il principe dei mimi Marcel Marceau così descrisse ciò che gli si parava davanti agli occhi: «Quando nel 1955 vedemmo a  Parigi per la prima volta l’Opera di Pechino fu un avvenimento sovrannaturale. Artisti giunti come da un altro pianeta e che sfidavano le leggi di gravità offrivano uno spettacolo d’incredibile magia. Il teatro del meraviglioso poneva sotto i nostri occhi fasto di costumi iridescenti, di maschere insolenti per la loro bellezza, svolgersi di arabeschi con salti e balzi eseguiti da uomini o, meglio semidei, demoni, camaleonti. Eravamo inchiodati per la sorpresa e lo stupore»

. Dunque, è un teatro da iniziati, dai ruoli e dalle regole ferree e da occhi allenati ad una profonda conoscenza dell’arte cinese quello che ci si è posto innanzi? Non proprio: visto che gli attraversamenti della storia, in questo primo quindicennio del XXI secolo,  stanno attuando uno svecchiamento anche nei processi artistici e produttivi della Cina e se si può dire di apertura, se non proprio di contaminazione, con la drammaturgia e la musica occidentale, soprattutto europea, in un andirivieni che non è più solo a senso unico. Come poteva essere sul finire degli anni cinquanta e per tutti gli anni sessanta del XX secolo. E quanti artisti, intellettuali, scrittori, musicisti sono stati avvistati e hanno raccontato il loro «sciacquar i panni», desiderosi di sedicenti purificazioni, in Oriente? Non in Cina, da sempre considerata un continente a sé, apparentemente immobile nella sua «fortezza intoccabile e universale». E l’Opera di Pechino in certo qual modo può essere il simbolo metaforico di una delle tante incrinature che la contemporaneità sta procurando nella gigantesca società cinese.

Un piccolo pertugio l’ha aperto da qualche anno Anna Peschke, allieva del compositore Heiner Goebbels. La regista teatrale di Heidelberg («ci sono nata, ma poi ho vissuto in un piccolo villaggio di poche centinaia di persone nel Nord della Germania. Ora quando non sono lontana, abito a Berlino»)  si è trovata incinta di sette mesi a festeggiare il suo trentasettesimo compleanno – è nata il 9 ottobre lo stesso giorno di John Lennon –  in mezzo alle prove e al debutto, all’Arena del Sole di Bologna e poi dal 20 al 24 ottobre al Festival Vie di Modena, della sua versione all’Opera di Pechino per la prima volta in Italia di un classico della letteratura universale come il Faust di Wolfgang Goethe (l’adattamento di Li Meini è basato sulla prima parte, la traduzione è di Fabrizio Massini). Un’impresa da far tremare chiunque e che la regista tedesca affronta, invece, sicura di un apprendistato triennale, provato con anni di studi e con la messa in scena del Woyzeck di Georg Buchner nel 2012.

Il sottotitolo «Una ricerca sul linguaggio dell’Opera di Pechino» è più di un ombrello critico: «Ho lavorato al Woyzeck con gli stessi attori protagonisti di Faust. Era uno spettacolo nato a due, poi uno degli attori si è infortunato ed è diventato un one-man-show, con l’attore Wang Lu che nel Faust è Mefistofele a ricoprire ben quattro ruoli». «Ho utilizzato poco dialogo, forse 3 minuti in più di un’ora, tutto movimento e canzoni tradizionali». Questo, insomma, è stato il primo approccio, già sperimentale, con gli attori dell’Opera di Pechino. Dal Woyzeck al Faust il passo è stato più lungo? «Avevo in mente di occuparmi di una storia universale e di farla ancora con gli attori dell’Opera di Pechino. Ci ho messo un po’ di tempo, incontrando ad Avignone Pietro Valenti, il direttore dell’Ert, tutto questo è diventato realtà. Ci sono più motivi che mi hanno indotto a pensare al Faust. Avevo scartato una nuova regia scespiriana, troppo Shakespeare si fa in Cina come anche la tragedia greca.

Al contrario Faust mi è sembrato subito «senza tempo» e adatto a rispondere alle tante domande d’oggi». In quanto a sfruttamento di archetipi Faust racchiude in sé il peggio dell’umanità, sia nei rapporti con l’alterità sia con se stesso: «Faust vive per distruggere ogni cosa che tocca, depreda per soddisfare i propri piaceri. È totalmente soggiogato dal diabolico patto firmato con Mefistofele. Ed infatti, ammazza il fratello di Margherita, e lascia che la donna, nonostante sia la madre di suo figlio, si uccida. È mia opinione che gli uomini vivano cercando il proprio benessere personale, sfruttando a più non posso qualsiasi tipo di risorse in uno sfrenato ed insensato egoismo. Faust restando solo li rappresenta». Gli altri tre attori che si alternano sulla scena: Liu Dake (Faust vecchio e giovane), Zhang Jiacham (Margherita) e Xu Mengke (Valentino, il fratello). «Con loro ho discusso e ho lavorato molto, anche nello scardinare alcune regole dell’Opera, aiutandomi anche con i caratteri della Commedia dell’Arte. Non molti sanno ad esempio che nell’Opera di Pechino la sessualità è bandita».
La scena dell’amplesso tra Faust e Margherita risolta nel gioco bianco d’ombre in dissolvenza sparato sullo schermo bianco ha molto di cinematografico. «Abbiamo visto insieme il Faust di Murnau e avevo in mente alcune regie teatrali tedesche di qualche anno fa». La Peschke sorride quando si fa notare che anche il duello tra Faust e Valentino «fa molto cinema di Hong – Kong». Il film di Sokurov, invece, non gli appartiene. Mentre, la musica electro-folk, affidata ad un ensemble italo-cinese e composta da Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Chen Xiaoman, asseconda con raffinata sensibilità la gestualità acrobatica dei protagonisti e allo stesso allarga ancor più quel buco di modernità che fa più vicina l’Opera di Pechino.