Rieditare ora la conferenza che Anna Kuliscioff tenne nel 1890 a Milano e intitolata Il monopolio dell’uomo (Ortica, pp. 64, euro 10) è uno dei modi migliori per valutare da un lato la distanza e il percorso compiuto da un’idea di donna che prescindeva quel lato del farsi e del diventare tale, fino a quell’idea di performatività del genere che infine ha preso le distanze dal biologismo femminino o più generalmente eterosessuale, dall’altro quanto il rapporto tra donne e mondo del lavoro è ancora spaventosamente prossimo a quella conferenza.

MOLTE SONO LE CHIAVI di lettura utili per leggere questa conferenza. La prima è quella storica: sono, infatti, gli anni in cui Kuliscioff, con Filippo Turati e Costantino Lazzari, fonda la Lega Socialista Milanese e nasce quel suo personale salotto che sarà a un tempo redazione di Critica Sociale e ambulatorio medico per poveri. Il legame tra socialismo e scienze medica, antropologica, etologica quasi, è un’altra costante di queste pagine.

LEI È MEDICO, anzi è la «dottora dei poveri», è una scienziata e affronta la questione femminile certamente da un punto di vista politico. Ed è una politica in cui il lato economico, sociale, conflittuale si sposa con un’analisi della donna e dei ruoli a lei negati dalla storia, ma soprattutto dell’autodeterminazione possibile nel mondo del lavoro, ancora molto legata alla temperie positivista – Kuliscioff era stata un’assidua frequentatrice del celebre salotto di Cesare Lombroso – che l’aveva convinta, anche nella sua lettura scientifica e umanitaria dei rapporti di classe, ad abbandonare l’idea rivoluzionaria per un riformismo disposto al colloquio con Giolitti, seppur nell’idea di fondo di una socializzazione dei mezzi di produzione.

LA QUESTIONE FEMMINILE quindi è affrontata seguendo gli studi della primordiale antropologia culturale di Tito Vignoli, che definiva se stesso «il più positivo dei positivisti», e di Angelo Vaccaro i cui studi su una biologica «lotta per la vita», vengono assunti dall’autrice come una legge per dimostrare quanto sia dannoso alla società il parassitismo delle donne costrette a non lavorare o a lavorare solo in ruoli miseri e subordinati e quanto questo parassitismo levi loro voce sui diritti politici. Si potrebbe a questo punto pensare che questo piccolo saggio non abbia più alcun valore o, ancor peggio sia passibile di un’irritata reazione a come la donna viene descritta.

NULLA DI PIÙ SBAGLIATO perché, nella sua esplosiva fiducia nel dato esatto, Kuliscioff snocciola dei dati tratti dagli Annali di Statistica dal 1885 in poi che risucchiano chi legge fuori da un testo apparentemente datato e lo obbligano ai conti con i nostri giorni, le nostre ore. La scienziata politica lamenta, ad esempio, l’indifferenza verso il lavoro di cura, di riproduzione e le capacità che questi quotidianamente implicano. Ebbene ancora nel 2017 l’Organizzazione mondiale del Lavoro definisce il lavoro di riproduzione «economia informale» e attualmente si definisce femminilizzazione del lavoro «il cambio di natura del lavoro stesso, divenuto flessibile e scarsamente tutelato con estensione di modalità tipiche del lavoro di cura quali la relazionalità, l’impegno senza orario, la tendenziale gratuità», come scrive Maria Grazia Campari. Quindi femminilizzazione come luogo di un lavoro a bassa tecnologia e lavoro intenso. Esattamente quello che Kuliscioff lamenta nel paragrafo sulla «Invasione della donna nelle industrie» commentando gli studi di Vittorio Ellena.

Questi giorni che ricacciano le donne nelle case, le obbligano a licenziarsi, ad accettare un finto smart working che diventa un ininterrotto orario di lavoro in cui professione, cura e riproduzione rischiano di diventare incubi ignorati dalla politica e in cui le case non sono certo stanze tutte per sé ma prigioni, farebbero bene a valutare l’inaccettabilità del «focolare isolato», così chiamato da Kuliscioff, non nel 1890 ma ora, domani.