Il football australiano non è solo uno sport. Strutturato come un gioco a squadre, debitore sia nei confronti del rugby che del calcio gaelico, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, è una sorta di emblema nazionale, una fucina di orgoglio e di identità. Diffuso e molto presente sui media, si calcola che sia seguito abitualmente da oltre un terzo dei 25 milioni di abitanti del Paese. Da questi semplici elementi si può facilmente desumere l’impatto che l’inchiesta realizzata da Anna Krien provocò al momento della sua pubblicazione nel 2013. Perché in Night Games. Sesso, potere e sport che 66thand2nd ha proposto di recente ai lettori italiani (pp. 312, euro 17, traduzione di Milena Sanfilippo) la 43enne giornalista e scrittrice di Melbourne racconta, a partire da un processo per stupro che vede imputato un giovane giocatore, decenni di abusi, violenze e razzismo che hanno caratterizzato sia l’ambiente del football che del rugby locali. Con estremo coraggio e grande lucidità, in quella che ha costruito come un’intensa inchiesta dal timbro narrativo, Krien spiega come a lungo le donne vittime di stupri o molestie da parte dei giocatori siano state convinte al silenzio in cambio di denaro da dirigenti e allenatori delle squadre e di come intorno a tali vicende, anche quando si è arrivati a svolgere effettivamente dei processi, si sia creata una sorta di «zona grigia», fatta di cliché, pressioni e fragilità delle potenziali vittime, che ha reso spesso impossibile arrivare in ogni caso alla verità. E, malgrado l’inchiesta sia stata realizzata dieci anni or sono e nel frattempo il mondo del football si sia dotato di un codice etico e la National Rugby League australiana sia intervenuta nel 1998, per la prima volta, contro le discriminazioni razziali in campo, subite soprattutto dai giocatori aborigeni, quest’alone nefasto non si è dissolto del tutto.
Night Games ha ricevuto numerosi riconoscimenti, vincendo tra l’altro il Davitt Award for True Crime e il prestigioso William Hill Sports Book of the Year.

Partendo da un processo per stupro, il suo libro conduce un’indagine impressionante sulla sottocultura maschile e violenta che ha dominato il football australiano. In quale mondo si è immersa mano a mano che procedeva nell’inchiesta?
Quando ho iniziato a lavorarci, il silenzio dentro e intorno al lato più oscuro dello sport australiano, si trattasse del football come del rugby, aveva cominciato ad attenuarsi. Ciò è dovuto almeno in parte all’«intrusione» in questo contesto di alcune giornaliste sportive che avendo dovuto subire dei rituali degradanti (ad esempio per intervistare i giocatori negli spogliatoi, ndr) hanno fatto emergere la cultura maschilista che regnava in quell’ambiente e rivelato come molte donne fossero state pagate per stare zitte dopo aver subito molestie o violenze da parte dei giocatori. Vicende totalmente ignorate in precedenza dai giornalisti sportivi maschi. Nel decennio che ha preceduto la pubblicazione di Night Games, sono state mosse più di venti accuse di violenza sessuale contro personalità dello sport australiano. Però, ciò che mi ha colpito di più mentre proseguivo nelle ricerche non è stato solo l’atteggiamento di fondo che emergeva negli ambienti di entrambi i campionati – le storie dell’orrore fatte di umiliazioni, sfruttamento delle donne e inganni -, ma quella sorta di status che in quei contesti ci si guadagnava raccontandosi a vicenda queste cose come fossero degli scherzi, delle semplici buffonate: in qualche modo la creazione di un mito che accompagnava questi atti in realtà così bassi. Poi c’era la vasta rete di relazioni che proteggeva e in effetti consentiva questi comportamenti, dai dirigenti delle squadre che adulavano «i ragazzi» negli spogliatoi fino agli agenti di polizia che il più delle volte finivano per essere d’accordo con i giocatori coinvolti che respingevano ogni accusa. Mi sono resa conto che non stavo soltanto indagando sulla sottocultura maschile, a lungo accettata in questi ambienti, che si basa sull’usare e trattare le donne come merda, sul razzismo più bieco e su rituali umilianti, ma stavo anche cercando di capire i codici di comportamento che si danno gli uomini quando stanno in mezzo ad altri uomini.

Lei evoca diversi casi di abusi che hanno assunto la forma del «gangbang», con l’unica donna coinvolta considerata alla stregua di «una funzione» in un gioco tra maschi. Eppure, alcuni allenatori e dirigenti hanno definito tali pratiche alla stregua di un «team building», una forma di «costruzione dello spirito di squadra». Parole che racchiudono il senso della deriva di una parte del mondo sportivo?
Assolutamente. Consideriamo uno degli episodi più complessi su cui si è indagato, ovviamente da parte di alcune giornaliste, nel 2009. Durante un viaggio in Nuova Zelanda dei Cronulla Sharks, un’équipe della regione di Sidney che gioca nel campionato di rugby, realizzato proprio costruire lo «spirito di squadra», un’adolescente si è trovata in una stanza d’albergo al centro di una gangbang che coinvolgeva circa dieci giocatori. C’è un detto in Australia: che «quello che succede nel footy trip, rimane nel footy trip» (i viaggi delle squadre, ndr). In questo caso però le cose sono andate diversamente. Quando la ragazza si è fatta avanti, la polizia neozelandese ha deciso di aprire un’inchiesta. In un’intervista, la giovane ha ricordato come durante «l’incidente» gli uomini non le abbiano mai rivolto la parola, mentre parlavano e ridevano tra di loro. «Ho tenuto gli occhi chiusi a lungo e quando li ho aperti ho visto solo che c’era una lunga fila in fondo al letto». Uno dei «capobanda», ha detto, era il capitano della squadra, la star del rugby Matty Johns, che trovava tutto ciò «molto divertente». Alla fine, però, la polizia non è stata in grado di portare avanti le accuse. Johns si è scusato con la moglie durante il suo programma televisivo e ha ricevuto una pacca sulla spalla dal co-conduttore. La ragazza? Dopo quella notte ha comprato una corda per impiccarsi.

Ma fino a che punto i dirigenti e gli stessi giocatori hanno ammesso queste pratiche, abusi e violenze comprese, che si sono ripetute per decenni?
In seguito a vicende come quella che ho ricordato, l’ex allenatore e giornalista sportivo Roy Masters ha scritto che per anni tali pratiche avevano rappresentato una forma non ufficiale di «team building». Però, solo di recente, di fronte al montare delle polemiche, i giocatori sono stati costretti a difendersi, parlando il più delle volte, come fanno in genere i loro avvocati, di «sesso di gruppo». In una gangbang il consenso informato è sempre possibile, anche se si deve valutare il contesto nel quale ciò avviene. E la terminologia utilizzata esprime in realtà il disprezzo verso la persona – la donna – che è al centro del «gioco». Si parla di «club bun» (lei è il panino, i giocatori sono la carne e devono «metterlo dentro») o di «arrostire un maiale allo spiedo» (lei è la carne, i giocatori sono lo spiedo). E chi penserebbe di chiedere il consenso ad un pezzo di carne? Del resto, sembrano queste le caratteristiche di certe forme di «team building». Se vuoi che gli uomini giochino (o vadano in guerra) con una mentalità vincente a tutti i costi, come se fossero un unico organismo, allora il codice con cui unirli è quello di una fratellanza leale e maschilista costruita sul sessismo, l’omofobia e le battute intorno alla competizione tra l’uno e l’altro. Eventuali minacce alla coesione del gruppo, come le donne, vengono respinte, o «usate», mentre umiliare i nuovi membri può rafforzare la propria posizione all’interno del gruppo. Ovviamente lo spirito di squadra può basarsi, al contrario, sull’integrità dei suoi membri. Basti pensare ai calciatori iraniani che per protesta non hanno cantato l’inno del loro Paese in Qatar.

Nel libro, lo sport non viene confuso con le sottoculture maschili e bianche che ne occupano la scena. Resta però da capire se in questi «giochi da ragazzi», come li definisce qualche vecchio giocatore che ha intervistato, si specchi in qualche modo più largamente il suo Paese.
Se c’è uno sport che rappresenta il mio Paese spero sia il football australiano che si dice provenga dalla cultura indigena nella quale di giocava a «marngrook» con una palla fatta di pelle di opossum e che, a differenza del rugby che è seguito soprattutto da folle maschili, vede sugli spalti molte famiglie e una forte componente di donne. Ci tengo a sottolineare questi elementi positivi proprio perché il mio non è assolutamente un libro contro lo sport, bensì intende fare i conti con una cultura brutale cui è stato permesso di fiorire di questi ambienti. E ciò non riguarda soltanto l’Australia, ma anche il football americano, il calcio europeo, l’hockey su ghiaccio altrove. Il problema non è il gioco in sé, ma la cultura maschilista dell’umiliazione che tende a controllarlo. C’è una bella citazione di Robert Lipsyte, un giornalista sportivo che ha lanciato decenni fa un monito sul fatto che gli Stati Uniti correvano il rischio di «pescare i propri valori negli spogliatoi». Lo stesso si potrebbe dire oggi dell’Australia, dove «i valori degli spogliatoi» sono via via filtrati oltre i club sportivi per diventare prevalenti nelle forze armate, nella polizia, persino in parlamento. Per molti versi, Night Games ha più a che fare con l’antropologia che con lo sport, ma come scrisse una volta il sociologo australiano Lois Bryson, le femministe che ignorano lo sport lo fanno a proprio rischio e pericolo. Non potrei essere più d’accordo.