«Posso dimenticare i nomi dei protagonisti, ma mi resterà in mente il rumore sottile della prosa» diceva Giorgio Manganelli dei libri che all’inizio affaticano ma poi vengono letti più volte. Nella raccolta di articoli che da questa considerazione ha preso il titolo proponeva diversi esempi di libri che si avvantaggiano di una rilettura. Alcuni non avevano bisogno di presentazioni, altri erano invece poco o per niente noti, oggetti misteriosi e oscuri. Scriveva Manganelli: «Avete provato a leggere Impressioni di follia di Anna Kavan? Leggetelo, vi prego; non mi pare se ne siano accorti in molti. Un amico di Firenze ha rintracciato un altro libro della Kavan al Remainder – umana sorte! – Ghiaccio. Oso dire che nel giro di pochi anni la Kavan sarà un terribile classico minore».

Impressioni di follia lo aveva pubblicato La Tartaruga nel 1978 e da allora se sono perse le tracce. Ghiaccio era invece uscito per Bompiani quattro anni prima, sfuggendo sul momento anche al radar solitamente attento di Manganelli. Riappare oggi nella traduzione di Giuseppe Costigliola (Edizioni 451, pp. 164, € 16,00) accompagnata da una bella nota introduttiva in cui Claudia Durastanti riconosce al romanzo il potere tipico dei classici: «inventare un genere solo per sé stessi».

Personaggi senza nome
Il libro sembra in effetti impermeabile a qualsiasi definizione, sebbene in molti abbiano provato eludendo l’etichetta più ovvia, quella della fantascienza. La stessa Durastanti ne propone una, convocando un termine che non ha un preciso equivalente nella nostra lingua – dreamscape – ma comunque riconducibile a un paesaggio onirico tanto fascinoso quanto inquietante. Altri, come Christopher Priest, riportano il romanzo allo slipstream ovvero al variegato filone narrativo che lambisce il fantastico senza abbracciarlo fino in fondo. Per parte sua, Jonathan Lethem aggira il problema con un’iperbole, paragonando Ghiaccio alla luna. Come la luna, il libro è dunque unico. Bianco e freddo, fissa dalle sue pagine il lettore con aria spavalda e indifferente, glaciale appunto, mostrandosi al contempo immobile e inquieto, mutevole, sfuggente. In due parole, un libro lunare e lunatico.

A riprova di questa sua natura evasiva, nessuno dei tre personaggi che lo abitano ha un nome, a cominciare dalla voce narrante, un uomo ossessionato da una ragazza minuta e fragile, dai lunghi capelli bianchissimi e lucenti. È il caso di parlare di ossessione e non di amore, perché i suoi sentimenti sono ambigui: vuole proteggerla dalla malvagità del mondo che ella sembra calamitare su di sé proprio perché fragile e tuttavia gli capita di provare un piacere estremo nel vederla soffrire.

L’uomo deve comunque contendere la ragazza al marito carceriere, un figuro non meno ambivalente del narratore quanto a intenzioni e comportamenti, al punto di sembrarne il doppio. Lo strano e turbolento ménage a tre ha per scenario luoghi desolati e anonimi come i personaggi. In questo mondo dove tutto appare indefinito e in progressivo disfacimento, il solo fatto certo o almeno costante è l’avanzare del ghiaccio. La neve è ovunque, le strade sono bloccate, i corsi d’acqua gelati. Le cause di freddo tenace e fuori stagione restano – superfluo precisarlo – inspiegate, ma proprio in questo clima ostile è fatale individuare il vero protagonista della storia.

Mentre lavorava al romanzo, Anna Kavan scrisse al suo editore che «questa sorta di racconto d’avventura sembra ora aleggiare nell’aria». A cosa si riferiva esattamente? Alle paure di quegli anni? Al clima paranoico della guerra fredda e al conseguente spettro del disastro nucleare o aveva in mente qualcosa di più profondo, che mettesse in connessione le ansie dei tempi con un disagio interiore? L’elemento autobiografico rivestiva una importanza tutt’altro che secondaria per la scrittrice.

Chi era dunque Anna Kavan? Nella quarta di copertina del libro che tanto aveva colpito Manganelli, veniva presentata così: «Sappiamo che si chiamava Helen Woods, era nata nel 1901, ed è morta a Londra nel 1968; che visse in Europa, Usa e America Latina, fece due matrimoni seguiti da divorzio, ebbe un figlio morto nella seconda guerra mondiale. Che era dedita all’eroina dall’età di trent’anni e che soggiornò in vari ospedali psichiatrici. Poi sappiamo quello che dicono i suoi libri, come Impressioni di follia del 1940, che racconta episodi legati a un periodo di malattia mentale». Ipotizzare una somiglianza non accidentale tra la neve che ammanta il romanzo e la polvere bianca da cui dipendeva l’autrice è un’ovvia tentazione.

Assai più indicativo è però che a partire del 1939, poco dopo essere stata dimessa dalla casa di cura in Svizzera cui sono ispirati i racconti di Impressioni di follia, scelse di chiamarsi Anna Kavan ovvero come la protagonista di due precedenti romanzi consegnati alle stampe con il nome di Helen Ferguson. Nel contrasto tra la ridda di identità assunte dalla scrittrice nel corso della vita e l’anonimato in cui versano spesso i suoi personaggi e i suoi mondi si riflette il motivo ricorrente della sua opera, l’idea che la cosiddetta realtà sia un luogo ambiguo e poco credibile, un sogno agitato, sempre sul punto di trasformarsi in un incubo vero e proprio. «Sono sempre stato convinto che nella realtà si nasconda una dimensione a me ignota» dice la voce narrante di Ghiaccio.

Uno stile freddo e crudele
Identità individuale e consistenza del reale erano per Anna Kavan due facce di un unico instabile pianeta e, in questo, il suo riferimento immediato era Kafka, il modo in cui K. somigliava più a una sorta di carapace dello scrittore che non un semplice personaggio, una tuta da esploratore per calarsi un abisso al contempo personale e ontologico. Nella casa di cura di Impressioni di follia si respira un clima simile a quello del Processo, mentre l’inverno di Ghiaccio ricorda la folgorante immagine iniziale del Castello: «Era sera tardi quando K. arrivò. Il villaggio era sprofondato nella neve». Cambiare nome, chiamarsi come un suo personaggio, non fu dunque un atto soltanto formale per Anna Kavan. A quella scelta si accompagnò il gesto purificatore nonché molto kafkiano di bruciare lettere e diari accumulati fino a quel momento. E poi la decisione di non essere più moglie né madre. Passò la seconda parte della sua vita in solitudine, perlopiù nella casa in cui morì, a Notting Hill.

Let me alone, così si intitolava, guarda caso, il romanzo in cui comparve per la prima volta Anna Kavan. Vi si leggeva il seguente passaggio: «Lei lo fissò con occhi gelidi, tanto che lui quasi si impaurì. Per un attimo lui vide il suo gelo, la durezza inflessibile che era in lei, l’indefesso distacco; la crudeltà perfino». Non è soltanto ambientazione dunque, il grande nord che avanza in Ghiaccio, è anche autoritratto, riflesso psichico di un preciso destino femminile, quello della donna infelice che può essere amata in funzione del suo ruolo, facendosi moglie o oggetto di desiderio, essendo sé stessa solo allo specchio, ovvero scrivendo con stile freddo e crudele, una prosa dal rumore sottile.