In uno dei bastioni della Rocca Brancaleone, fortificato mastìo cinquecentesco nel centro cittadino, si agita uno spettro da Macbeth, una raffinata strega elettrica tra volute di fumo colorato, luci frenetiche e vigorose sciabolate sonore, evocando misteriose presenze. «Voci tenebrose stanno arrivando per la mia anima/ Dovrei aver timore di te o lasciarmi andare?/ Oh, blackout, dovrei sapere da dove arrivi/ Cosa stai cercando di dirmi che ancora non so» (da Blackout). Dopo pochi mesi, la chanteuse guitar rocker Anna Calvi è tornata nel nostro paese per cinque concerti, cominciando da venerdì sera, all’interno del Ravenna Festival, giunto alla 25esima edizione col suo equilibrio di spettacoli classici, teatrali, lirici e musicali (sul tema, quest’anno, del centenario della prima guerra mondiale).

Maglietta bianca, pantaloni attillati neri, tacchi a spillo, lunghi capelli biondi, icona di stile e di passione, la ragazza di Twickenham alterna da subito la voce tenera e sottile a una cascata di note sporche, dure, violente imbracciando una dopo l’altra le sue chitarre preferite, il suo scintillanti marchio di fabbrica, che accompagna coi movimenti studiati dall’energia contagiosa.

Ognuno può trovare pietre di paragone (da PJ Harvey a Patti Smith) per la bambina che a dieci anni voleva essere David Bowie, scoperta e lanciata da Brian Eno cinque anni fa, portata in tour da Nick Cave, due album all’attivo e un ep, in uscita a luglio, con cinque cover, due insieme al suo recente mentore David Byrne, che gli ha suggerito (e co-interpretato) I’m the Man, That Will Find You (del giovane Connan Mockasin) e Strange Weather di Keren Ann, con un videoclip fenomenale (senza apparizione di nessuno dei due musicisti), un corto romantico girato in notturna tra grattacieli e strade di New York (da Alan Del Rio Ortiz).

Sul palco i suoi tre musicisti – la polistrumentista Mally Harpaz, una «sorellina» che l’accompagna da quasi dieci anni, traffica con harmonium e mantice del salterio, vibrafono e marimba, Alex Thomas alla batteria, Glenn Callaghan alle tastiere e ai nastri preregistrati – aumentano la straniante energia dei suoi brani , da Suzanne and I a Suddenly, da Cry a Carry me over, passando per la Fire di Bruce Springsteen, solo voce e chitarra abrasiva, lancinante, distorta, col pubblico che riconosce alcuni brani e in altri si lascia piacevolmente andare alle pesanti sferzate, alle travolgenti vertigini, a quella carica di inquietudine, presto sostituita da sprazzi di dolcezza della insinuante voce melodiosa.

Indie-rock di gran pregio, ora fragile miss alternativa ora elegante dark lady, zaffate carnali e passaggi da melò, ricucendo quei pezzi già noti, First we kiss eThe Devil e Love won’t be leaving, dichiarazioni spigolose e messa in scena in puro art rock style. La conclusione, il bis, è un ritorno al passato, al primo singolo Jezebel, cover del successo di Frankie Laine del 1951, con una strepitosa versione di Edith Piaf (quando si dice ispirarsi a modelli importanti).

In famiglia ha ascoltato tanta musica: «È vero, mio padre mi ha fatto sentire di tutto, da Rossini a Captain Beefheart, da Maria Callas a Edith Piaf che sono le mie preferite, e hanno contribuito a formarmi un modello di vocalità. Da piccola mi portavano in vacanza a Roma, dove c’era mio nonno che suonava il pianoforte. Io sono proprio l’incrocio fra due popoli diversi: la mia famiglia italiana è drammatica, espansiva; da mia madre Veronica invece ho preso tutti i tipici risvolti inglesi».

Probabilmente il luogo assolutamente da segnalare alla reginetta della chitarra è il mausoleo di Galla Placidia, una donna che divenne imperatrice nel V secolo, coi suoi bellissimi mosaici e un’atmosfera cupa e sognante, trasmessa da un cielo blu cobalto con stelle dorate, un’autentica allucinazione sensoriale (la leggenda racconta che Cole Porter, in viaggio di nozze a Ravenna, rimase talmente colpito dall’atmosfera del piccolo edificio a croce latina, da comporre qui la sua famosa canzone Night and Day).