Per il suo documentario sull’assassinio di Jamal Khashoggi, il premio Oscar Sean Penn è arrivato a Istanbul al momento giusto. Ieri mentre l’attore americano e suoi collaboratori venivano avvistati dalle parti del consolato saudita nella metropoli sul Bosforo, la procura turca ha emesso due mandati di cattura. Il primo nei confronti di Saud al Qahtani, stretto consigliere del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il secondo contro il generale Ahmed al Asiri, ex numero 2 dell’intelligence, entrambi rimossi da Riyadh nel goffo tentativo di allontanare i sospetti dall’erede al trono dopo il delitto due mesi fa del giornalista dissidente.

Le manovre diplomatiche, i ricatti economici e il sostegno aperto offerto a Riyadh dal premier israeliano Netanyahu e Donald Trump a Bin Salman non riescono a spegnere i riflettori internazionali sul caso Khashoggi. Ieri a Ginevra l’Alto commissario Onu per i Diritti Umani, Michelle Bachelet ha affermato il bisogno di un’inchiesta internazionale «per accertare chi sono i responsabili di quel terribile omicidio». E la Turchia, come si è visto, non rinuncia proseguire le indagini. «L’inchiesta continua, andremo fino in fondo e in caso di ostruzioni non esiteremo a ricorrere a un’inchiesta internazionale», ha assicurato il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu.

Le mosse della magistratura turca per ora riguardano solo capri espiatori, membri dell’entourage di Mohammed bin Salman e dirigenti dei servizi di intelligence che hanno eseguito degli ordini, giunti dal principe ereditario, e che i Saud sacrificano nella speranza di chiudere la vicenda. Tuttavia portare Saud al Qahtani e Ahmed al Asiri di fronte ai giudici turchi sarà una impresa eccezionale. L’Arabia saudita ha già respinto la richiesta di estradizione presentata da Ankara. Tra i due paesi non esiste un accordo di estradizione e Ankara ha solo una carta da giocare: chiedere all’Interpol di emettere un mandato di cattura internazionale.

Da parte sua Riyadh continua la sua difesa dell’indifendibile. «In nessun momento Sua Altezza Reale il principe ereditario ha avuto comunicazioni con alcun funzionario saudita per far del male a Jamal Khashoggi, un cittadino saudita. Respingiamo categoricamente ogni accusa che mira a collegare il Principe a questo orribile incidente», ha scritto in un tweet Fatima Baeshen, portavoce dell’ambasciata saudita a Washington. Il fatto che Riyadh parli ancora di incidente spiega bene con quale “serietà” i Saud stiano affrontando l’assassinio di Khashoggi. «Il Regno dell’Arabia Saudita è stato franco nell’affrontare questo tragico errore, sta portando davanti alla giustizia le persone responsabili e mettendo in campo misure correttive per garantire che un buco istituzionale di tale catastrofica natura non si ripeta», ha aggiunto Baeshen affermando poi la volontà di mantenere strette relazioni con gli Stati Uniti.

L’Arabia saudita chiede soccorso ancora a Donald Trump, che ha già assolto Mohammed bin Salman, in nome degli interessi strategici degli Stati Uniti e delle dozzine di miliardi di dollari che i Saud spenderanno in armi Usa. Il presidente americano è arrivato al punto da sconfessare le indagini della Cia che indicano come mandante dell’assassinio proprio il rampollo reale saudita. Ma le informazioni sull’assassinio di Khashoggi che Gina Haspel, capo della Cia, ha dato due giorni fa a un ristretto numero di senatori, accrescono le possibilità che il Congresso adotti misure punitive contro l’Arabia saudita, inclusa la fine del sostegno che gli Stati Uniti garantiscono alla Coalizione araba guidata da Riyadh che combatte i ribelli sciiti Houthi in Yemen. Al termine dell’incontro con Haspel, il senatore Lindsey Graham ha affermato con macabra ironia che «Non c’è una pistola fumante, c’è una sega fumante», riferendosi agli agenti sauditi che hanno usato una sega per smembrare Khashoggi dopo averlo ucciso.