Gli Stati uniti stanno preparando la loro offensiva per sottrarre Ramadi, Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria) dalle mani dello Stato islamico. Il primo passo è stato l’accordo sul nucleare iraniano, raggiunto a Vienna il 13 luglio scorso, che ha bilanciato lo strapotere saudita nella regione. Il secondo è il piano con la Turchia, annunciato giovedì, dopo mesi di negoziati lontano dai riflettori, dal presidente Recep Tayyip Erdogan che aveva sentito poco prima Obama, per portare l’alleato Nato nella coalizione anti-Isis.

Il piano prevede la costruzione di una doppia barriera al confine con la Siria, pattugliamento aereo e l’imposizione di una no-fly zone di 90 chilometri che penetra per 50 in territorio siriano (tra le città di Mare e Jarabulus).

Secondo il premier turco Ahmet Davutoglu i bombardamenti di giovedì e venerdì, comunicati con una telefonata a Bashar al-Assad, hanno raggiunto completamente i loro obiettivi. Fin qui Erdogan aveva boicottato la coalizione internazionale anti-Isis, da una parte, perché la Turchia si è sempre mostrata ostile verso il presidente siriano (che nel breve termine sarà rafforzato dall’impegno turco anti-Isis), dall’altra, perché i bombardamenti contro Isis hanno fatto comodo ai combattenti kurdi e al sogno di autonomia democratica di Ocalan.

35 jihadisti sono stati uccisi nei raid turchi sul villaggio di Havar in Siria e 300 sono gli arresti di ieri in tutto il paese (tra cui il leader jihadista, Halis Bayancuk, detto Abu Hanzala). Eppure è ancora troppo poco. E l’atteggiamento turco sarà sempre quello di colpire non solo gli islamisti radicali ma anche i comunisti che sostengono il partito dei lavoratori kurdi (Pkk) e Dhkp-c, il Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo, come se fossero tutti terroristi.

Cinquemila soldati sono stati impegnati nell’operazione, 140 case sono state perquisite. «Si tratta solo di un’azione di facciata. Erdogan vuole che tutti percepiscano che sta combattendo Isis ma non lo farà», ci spiega al telefono da Diyarbakir Omer Tastan del partito di sinistra kurdo turco Hdp. «Perché la Turchia non prende misure serie contro i jihadisti di Daesh che sono scappati nel suo territorio?», aggiunge il politico.

Il punto centrale dell’accordo con Ankara riguarda la base di Incirlik in Turchia. Sarà finalmente utilizzata dalla coalizione internazionale per bombardare Isis in Siria. I caccia statunitensi non dovranno più impiegare ore, partendo da Iraq, Giordania e paesi del Golfo, per attaccare gli obiettivi sensibili dei jihadisti, indicati dai combattenti sul campo: i peshmerga in Iraq (il vero modello nella lotta anti-Isis come ha detto ieri il Pentagono) e le Unità di protezione maschili e femminili (Ypg-Ypj) in Siria. Il segretario alla Difesa Ashton Carter ha incontrato ieri ad Erbil nel Kurdistan iracheno il governatore Massoud Barzani lodandone l’impegno contro i jihadisti.

Ancora una volta gli alleati degli Usa sono i kurdi iracheni e non i combattenti di Rojava, la cui lotta potrebbe essere addirittura indebolita dal nuovo impegno turco nella coalizione anti-Isis. La svolta contro Isis sta avvicinando la formazione di un governo di coalizione tra Akp e il partito kemalista Chp a Ankara. «I colloqui sono entrati in una nuova fase», ha fatto sapere ieri Erdogan. Ma anche la strada delle elezioni anticipate (entro tre mesi di instabilità politica) non è da escludere.

L’impegno turco è una delle novità nella lotta contro i jihadisti da quando la loro offensiva ha ottenuto successi in Siria e Iraq, grazie al sostegno che avevano avuto dal 2011 in poi prima sottoforma di legittimazione politica in Egitto e Siria poi con finanziamenti da parte delle Intelligence saudite, degli Emirati e occidentali.

Perché Erdogan può permettersi di combattere apertamente contro l’Isis e altri uomini forti della regione non possono (ad esempio al-Sisi in Egitto)? Il partito islamista moderato turco non ha bisogno del terrorismo, come neppure altre forze dell’islamismo politico che godono di largo sostegno popolare. Per tenere le redini del potere a Akp basta il 40% ottenuto alle elezioni. La popolarità di Erdogan non si è basata sin qui solo sull’autoritarismo, come è avvenuto in Egitto e in Siria.

In quel caso alimentare il terrorismo serve a mantenere in piedi i regimi militari, messi a rischio dalle contestazioni o dall’ascesa di forze legate all’islamismo politico. Lo spiega Jean Pierre Filiu nel libro «From deep state to Islamic state» dove descrive la parabola dell’ascesa di Isis con gli occhi delle Intelligence che hanno dovuto contrastare le rivolte di piazza del 2011 innescando la minaccia jihadista. Se non ci fosse stato il golpe in Egitto nel 2013 ora racconteremmo un Medio oriente completamente diverso: Erdogan in Turchia, il riavvicinamento Washington-Tehran e Fratelli musulmani al potere dalla Tunisia all’Egitto. Le cose sono andate diversamente.

Ma l’espansione jihadista deve essere fermata in qualche modo. Dopo i colloqui tra Hamas e Arabia Saudita, gli attacchi turchi anti-Isis, non meraviglierebbe nessuno se si aprisse una nuova pagina di dialogo tra regimi e islamisti moderati anche in Egitto, Siria e Libia. L’Iran non è un alleato di Washington ma la leva dell’accordo riporta un certo equilibrio in Medio oriente, messo completamente a rischio dopo l’ascesa di Isis. Anche ad aprire le porte al dialogo di Washington con Mosca per risolvere la crisi siriana e non solo.