Nomi significativi del cinema si aggirano per il piccolo grande festival collinare di Animavì (11-15 luglio). Dedicato principalmente al film d’animazione poetico e d’autore, il gioiello marchigiano diretto dall’animatore Simone Massi, coaudiuvato dalla squadra di valenti collaboratori appassionati dell’associazione culturale Ars Animae, cala per la sua 3° edizione e premia con il Bronzo dorato, ispirato al gruppo scultoreo di epoca romana simbolo della città di Pergola, gli assi Wim Wenders, Alice e Alba Rohrwacher (Lazzaro Felice), l’artista-artigiano georgiano di teatro di marionette Rezo Gabriadze, l’attore teatrale e cinematografico Roberto Herlitzka, Manfredo Manfredi.

Quest’ultimo, maestro e pioniere dell’animazione italiana, il cui apporto più popolare in Italia è senz’altro la sigla cult di Carosello e che si afferma a livello internazionale nel 1977 con il cortometraggio Dedalo candidato all’Oscar e insignito del Gran Premio al festival di Ottawa, è l’autore del manifesto di quest’anno. Scenografo, pittore e regista anche di spot pubblicitari e sigle televisive, classe 1934, è con gli anni ’60 che sperimenta l’estensione della narrazione animata. Con cortometraggi di denuncia sociale come Ballata per un pezzo da novanta (1966) sulla mafia siciliana, o Su sàmbene non est abba (Il sangue non è acqua, 1968), sul banditismo in Sardegna, entrambi realizzati assieme a Guido Gomas, ottiene vari riconoscimenti tra cui il Nastro d’argento come miglior cortometraggio. Uva salamanna (1975), favola di principi e principesse fra le colline toscane, vince al Festival cinematografico internazionale di Mosca. Negli anni ‘90 si accosta alla letteratura italiana con stile raffinato adattando per lo schermo Il canto XXVI (quello di Ulisse nell’Inferno, 1997) di Dante e Le città invisibili (1998) di Italo Calvino. Dopo 20 anni interamente dedicati alla pittura, con l’eccezione dell’inserto onirico nel lungometraggio di Guido Manuli Aida degli alberi (2001), ritorna quest’anno al cinema d’animazione con il nuovo titolo Lo spirito della notte, prodotto e diffuso da Nomadica. Qui l’artista in notturna dà briglia sciolta a fantasie, inquietudini e ricordi prima di tornare a patti con la logica della quotidianità diurna. Afferma Manfredi nelle note di regia: La notte è spesso intesa come un luogo ‘altro’ dove la mente si avventura nell’approssimarsi del sogno o nella lucida speculazione intellettuale. La notte è spesso un luogo dell’arte ed è a questo spazio fisico e mentale che si rivolge questo breve film”.

E’ questo approccio suggestivo, evocativo, talvolta onirico o legato a ricordi, sensazioni, emozioni non necessariamente avvulsi dalla realtà anche dura, anche crudele che connota Animavì. Ne è prova l’uso che il direttore Simone Massi ne ha fatto, con il suo gruppo di eccellenti artisti, nelle parti animate del documentario La strada dei Samouni di Stefano Savona (presentato all’ultimo festival di Cannes) sulla tragedia di Gaza sotto costante assedio. Affine quindi è la chiave poetica che ha dettato la selezione internazionale dei 16 cortometraggi in concorso sottoposto al giudizio di Manfredi, Alba Rohrwacher e lo scrittore e poeta Franco Arminio. L’egiziano May Hassan nella sua Storia di un rifugiato narra con voce fuori campo e una tenue colonna sonora sorretta da violino e piano di un rifugiato siriano, costretto a scegliere fra la sua casa violata e la fuga verso l’ignoto. Il giallo ocra su sfondo notturno indaco disegnato a mano, ci conduce nella dimensione sconosciuta e incerta di chi, lasciati paese e famiglia, raggiunge infine una terra sicura dove però un viaggio più arduo deve cominciare. “Sono un rifugiato che ha lasciato un’impronta sul suo nuovo paese, come molti altri” chiosa dopo scene suggestive di scuola, studio, laurea, vita a cui fanno seguito citazioni illustrate a Einstein, Alec Issigoris (inventore della Mini Cooper), Karl Marx, Loul Deing (campione di basket NBA). Il messaggio chiaro è esplicitato: “Accogliere i rifugiati è un’opportunità, non una carità”.

Fra luce e ombra si giocano anche le esistenze intime, talvolta meno evidenti perché non segnate da tragedie collettive ma che si sviluppano nel proprio ambito familiale e relazionale. Senza parole ma con immagini forti il russo Andrew Katsuba con Inner Light esprime con grande sensibilità visiva e evocativa il disagio di un bambino che non sembra avere posto in un mondo dove domina la luce e che per lui è solo sofferenza e dolore. In questo mondo abbagliante lui, costretto a lasciare la sua casa di nuovo, vive come un’ombra per cui persino tendere la mano a chi te la porge rappresenta un’impresa traumatica.

Pittorico e essenziale lungo una traccia di rarefatte note sospese, in Maned e Macho di Shiva Sadegh Assadi (Iran) le emozioni represse e gli istinti di una giovane ragazza si incarnano in animali che escono dai suoi sogni. Catturato in primissimi piani e dettagli a tutto schermo, lo sguardo dello spettatore s’impregna dell’immaginario onirico della dormiente mentre ovviamente i suoi familiari nemmeno se ne accorgono. L’empatia con la protagonista è totale, la sua soggettività condivisa tramite la sua oca, il suo cane, il suo elefante. Il sonoro si agita, sbraitando la sua natura selvaggia man mano che l’atmosfera densa si fa più inquietante. La tortuga famelica, il canguro azzannato, il leone ferocemente maschio s’intrecciano con le paure e l’istinto liberato della adolescente, mentre la sua forza femminile in divenire si definisce.

L’essenza umana si trasforma in animale anche in Among the Black Waves della russa Anna Budanova. Ispirato all’antica leggenda scandinava secondo la quale le anime delle persone annegate si trasformano in animali marini, il film segue un cacciatore che ruba la pelle di una ragazza-foca impedendole di tornare allo stato animale. Scorci notturni in riva al mare al chiaro di una luna velata dai contorni incerti, il pescatore con il suo cane silenziosamente si allontana con il bottino in spalla. Anche qui il bianco e nero si articola in tutte le sue sfumature con appena qualche comparsa di rosso, concedendo molto al godimento grafico, così come il tema della violenza di genere viene suggerito dalla sovrapposizione umano-bestiale.

Infine torniamo a un efficace esempio di approccio emozionale a un’ingiustizia inflitta da volontà politiche in Il caso di Moczarski del polacco Tomasz Siwinski. Si illustra la vicenda del giornalista e ufficiale della Resistenza nella Polonia occupata durante la Seconda Guerra Mondiale, autore del libro “Conversazioni con un boia”. La storia di Kazimierz Moczarski è trattata in modo metaforico e paradossalmente associata a quella del suo nemico generale nazista Jurgen Stroop, il liquidatore del ghetto di Varsavia. Entrambi condannati all’unisono dal regime post-bellico di stampo staliniano, giustiziato l’ufficiale nazista nel 1952, quattro anni dopo con il cambiamento del clima politico Moczarski viene liberato e riabilitato dall’accusa di collaborazionismo.