Il virus e la specie, l’ultimo libro di Massimo Filippi, edito per Mimesis (uscito in ebook), potrebbe sembrare a uno sguardo disattento un instant book ma ci si sbaglierebbe. Come suggerisce il sottotitolo Diffrazioni della vita informe è infatti una riflessione spinta dall’urgenza, una serie di variazioni sul tema della vita senza forma, che è tanto quella degli e delle animali quanto quella del virus. E, per giustapposizioni e concatenamenti, anche quella dell’essere umano, dell’inorganico, dell’atmosfera, del mostro, della salamandra, del capitale, della gatta.

IL LIBRO, piccolo per foliazione ma di contenuto concentrato, è strutturato da tre capitoli argomentativi, intervallati da testi «cuscinetto», quasi delle divagazioni parallele, denominate «Soglie». O forse sono questi i veri capitoli del libro, dato che di fatto si apre, subito dopo l’introduzione, proprio con una «Soglia» che offre un’immagine molto potente che resta come in sospensione per tutta la lettura, quella del Grattacielo di Horkheimer, tratta da Crepuscolo del 1934. Dunque se si può dire che questo breve libro tocca molti argomenti, uno perdura e attraversa sottotraccia l’intero testo: «la violenza materiale e simbolica che percorre l’intera architettura sociale che abitiamo», ossia la categoria di specie.

L’ANIMALE – suggerisce l’autore – è l’evento obliato che non abbiamo mai smesso di essere e le cui implicazioni sono ancora lontane dall’esser comprese appieno. Per questo guardare in faccia l’animale che resiste, l’animale che fugge in cerca di libertà, vuol dire riscoprire l’affinità che ci lega agli occhi del potere, la violenza cieca delle istituzioni che governano i corpi e normano l’esistente, non prima di aver tracciato i confini che sostanziano esse stesse.
Così, l’animale che fugge ci indica la via.

Ma l’intreccio di cui siamo espressione e fenomeno fa emergere anche il virus e la sua potenza, a causa di una molteplicità di fattori, tra cui: «capitalismo, antropizzazione e globalizzazione». Basti pensare a come intra-agiscono tra loro allevamenti industriali, enormi conglomerati urbani che consumano ambiente naturale e i traffici e i trasporti sempre più veloci e continui tra i quattro angoli del pianeta. Temi su cui ormai c’è larga convergenza di studi e che sono presi in considerazione anche dall’Oms e dall’Onu.
In questo scenario il virus agisce come un perturbatore semantico, epistemico e mortale. Il virus nei suoi salti di specie fa percepire quanto siamo «vita nuda», biologicamente esposti e fragili, oltreché profondamente, impensabilmente animali e, pertanto, prossimi a ogni altra specie, dal pangolino al pipistrello, dal pollo da allevamento all’oncotopo.

SE TUTTO CIÒ indica una via, questa sembra passare dall’esperienza della vulnerabilità e della morte, per indicare la carne-del-mondo che pure siamo – sì, ma non da soli – ossia punta in direzione dell’uscita dall’antropocentrismo attraverso lo smontaggio del dispositivo della speciazione.
Dire che la pandemia mostra l’uscita dall’antropocentrismo, significa che cambia radicalmente la composizione del noi, non più semplice massa di individui umani ma figura cangiante di intrecci di relazioni inter-specie tra organico e inorganico, assemblaggi e flussi, contatti e conflitti. La soglia tra mondo interno e mondo esterno si rivela infine per quello che è, un passaggio.

PER ALTRO VERSO, la potenza del virus fa il vuoto, letteralmente, ossia fa spazio in modo crudele. Non sappiamo se ciò implichi – come sostiene Filippi – che il desiderio si moltiplichi per reazione alla mancanza, ma certamente genera aperture. Qualcosa si libera. Sappiamo rispondere prontamente? Sappiamo trarre nuova vita dalla morte? O non aspettiamo altro che tornare alla nostra consolante routine, rapporti di forza sociali compresi?
Ecco allora emergere materialisticamente la dimensione politica. Rompere la speciazione è riconoscere il network mostruoso che siamo, singolarità molteplice di corpi erranti e in trasformazione.
Detto con le parole di Haraway, riprese e chiosate dall’autore: «’In tempi pericolosamente poco promettenti, il compito è quello di costruire collettivi più potenti’. Meglio humus che Homo».