Dalla collezione di Pierre Rosenberg: due polipi in vetro di Murano con dettagli in murrina e pasta bianca e nera, anni ’30 e ’50

 

Dalla collezione di Pierre Rosenberg: Laurent de la Hyre, “La Renommée”, circa 1650

 

Pierre Rosenberg è un uomo famoso per quanto il lavoro che fa porti raramente alla celebrità: è uno storico dell’arte che ha favorito quell’aspetto del suo mestiere che si avvicina alla «scienza» o, meglio, alla filologia più che alla critica, alla disamina delle idee più che al senso della bellezza. Mi spiego meglio: la sua intelligenza lo avvicina più allo studio dei fatti storici che al commento lirico della linea e del colore; per lui conta a ragione la storia e nel contempo lo stato, la conservazione di un’opera, la sua genuinità e il suo significato spirituale e fisico, la matière.
È stato sempre interessato all’espressione e al contenuto, ma non fu sempre così: quando lo conobbi, nel 1965 in occasione della formidabile esposizione Le XVIe siècle européen a Parigi, la sua scrittura non era quel che contava particolarmente nella sua profonda ricerca e conoscenza. Proprio in quell’anno ci incontrammo con Roberto Longhi che andava spesso in Francia e parlava un ottimo francese, e da allora Pierre mi apparve più interessato all’esposizione letteraria dei suoi pensieri. In un certo senso era più vicino a Zeri che a Longhi, ma la seduzione del vecchio incantatore ebbe la meglio e i dubbi, se c’erano stati, scomparvero, al punto che lo si può considerare un longhiano, forse meno tipico di quanto lo erano altri francesi quali André Chastel e Michel Laclotte. L’unico punto di divergenza con Zeri e con Longhi era la valutazione del Seicento francese, che gli studiosi di quella nazione erano convinti raggiungesse l’apice nella pittura, anzi nella concezione della vita e dell’arte di Nicolas Poussin. Longhi non fu mai di quell’avviso: la Francia, l’intera civiltà francese era per lui, è vero, un distillato dell’Europa che amava, ma i suoi pittori erano prima alcuni italiani come Bellini e Caravaggio, poi altri francesi come, per fare qualche esempio, Chardin, Fragonard, Delacroix, Renoir, in una parola la sola Parigi era il reliquiario del suo cuore e del suo spirito.
A misura che gli anni passavano, Pierre prestò non meno attenzione alla letteratura e alla lingua che alla filologia, più acuto, più sensibile di quanto lo fossero molti suoi connazionali all’idioma italiano giacché, contrariamente agli inglesi e ai tedeschi, i francesi parlavano spesso con la loro cadenza condita di r mosce certamente più graziose delle durezze germaniche e del sussiego inglese. Credo che con gli anni, con l’aiuto della letteratura, ottenne garbo e chiarezza per il suo dettato, necessario nel suo caso per aggiungere al suo nome la frase che ogni francese agognava di scrivere accanto al proprio: Pierre Rosenberg, de l’Académie Française.
Ebbe anche questo. La sua scrittura mutò e i suoi interessi divennero infinitamente più vasti. Gli devo molta gratitudine: è nato come me nel 1936, ma esattamente un mese prima e forse per questo in molte occasioni, soprattutto all’inizio della mia carriera, mi fu di grande aiuto. Mi era stata affidata una rivista d’arte che, dopo una gestione un po’ qualunquista, aveva alcune cose da farsi perdonare: doveva essere gestita con maggiore attenzione a quel che si pubblicava e non cadere nelle mani di attribuzionisti professionali – se così si può dire –, più attenti o più rispettosi dei nomi altisonanti che della qualità. Mi fece conoscere diversi suoi colleghi di prim’ordine e si rese disponibile, indicandomi altre possibilità nella vasta scelta degli specialisti francesi e persino italiani. Lui stesso mi affidò vari suoi testi che dettero autorevolezza a quello che mi provavo a fare con «Arte illustrata», la rivista che veniva pubblicata allora a Firenze.
Fin dalla prima volta che lo visitai nella sua casa di Rue Vaugirard vicino a Saint-Sulpice restai impressionato dalla varietà delle sue raccolte: infiniti quadri francesi e italiani (qui scelgo La Fama di Laurent de la Hyre e una piccola testa di Pompeo Batoni, ambedue in un momento di particolare grazia), e potei in diverse occasioni vedere una parte del suo sterminato fondo di disegni, centinaia e centinaia di fogli, spesso straordinari. (Gran parte di tutto questo è ora destinato a un nuovo museo che si aprirà in futuro nel Département des Hauts- de-Seine).
A Pierre piaceva allora sciorinare una certa ironia verso le arti decorative per, col passare degli anni, cadere in questa deliziosa trappola. Da una trentina d’anni a questa parte si è dedicato a collezionare piccoli animali di vetro eseguiti a Murano, a partire dagli anni trenta del XX secolo, che adesso vengono presentati in una mostra a Venezia, Fondazione Giorgio Cini: L’Arca di vetro La collezione di animali di Pierre Rosenberg (fino all’1 novembre, a cura di C. Beltrami e G. Naccari, catalogo Skira). Qua e là molti di questi oggetti sono ancora vicini al gusto Art Déco e, a mio modo di vedere, soprattutto alle idee del film di Walt Disney Fantasia del 1940, dove gli animali si presentano danzando in ogni modo immaginabile al ritmo di famosissime composizioni musicali. È davvero curioso come Disney, un artista ben più importante di quel che di solito pensiamo, fosse riuscito forse inconsapevolmente ad imporre non poche sue idee persino nella piccola isola veneziana. Sono contento che il mio caro vecchio amico si sia legato mani e piedi ad un aspetto del gusto decorativo che, ai tempi della nostra gioventù, non doveva apprezzare con uguale entusiasmo.
Devo ricordare che anche quando dissi al vecchio Longhi che volevo occuparmi di arti decorative, mi guardò con un sorriso piuttosto beffardo: «vuoi dunque studiare le sedie? Non penserai più a Spinello Aretino o Lorenzo Monaco?». Qualche giorno dopo, quando tornai nella sua casa, mi fece vedere dei bellissimi vetri, che non erano però di Murano ma del Cinquecento. Sapevo già che aveva comprato mobili Impero lucchesi e non dimentico di aver sorriso quando scrisse ogni bene delle porcellane di Sassonia nel suo curioso saggio su Arte italiana e arte tedesca – la porcellana era l’oro bianco del Settecento. In un certo senso mi sentivo ripagato di quello che ambedue avevano considerato per un po’ una mia debolezza. Forse è un mio vizio non del tutto accettabile che comincia a non diventare tale se praticato da studiosi ben più importanti di me. Ho sempre creduto che non è importante sempre ciò che si pensa, ma piuttosto come lo si pensa e soprattutto, nel nostro caso, come lo si dice.