In Casa Colussi, che ospita il Centro Studi Pier Paolo Pasolini, allestita con sobrietà e precisione filologica è aperta fino al prossimo 25 agosto la mostra Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (tel. (+39) 0434 870593, info@centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it) con le foto scattate sul set da Angelo Novi, che fu tanto un maestro del reportage quanto un richiestissimo fotografo di scena, come infatti documenta il catalogo della mostra con i contributi di Marco Vanelli e Giacomo Trevisan per l’ottima cura complessiva di Roberto Chiesi, responsabile dell’Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna che, appunto, ospita il ricchissimo Fondo Novi.

La mostra è scandita in quattro zone adiacenti e per nuclei tematici che associano, in una quarantina di scatti, le immagini dei volti e dei corpi alla reinvenzione dei luoghi nel film, così come la sacralità dei riti religiosi lì incorporati alla informalità del set cinematografico. Novi è un interprete più che un semplice testimone, tuttavia (vincolato in questo dalla vocazione del reporter) non prevarica mai la verità del set ma interroga, contemporaneamente, ciò che viene intanto fotografando. E ciò si vede dalla qualità del gesto fotografico (la macchina, al suo solito, è una classicissima Leica 35 mm) che alterna il biancoenero in cui è girato il film a un colore che comunque rigetta i timbri troppo definiti e vividi per affidarsi a velature più tenui della gamma tonale.

È noto, in proposito, che il Cristo di Pasolini ha presenza del tutto frontale, si muove ex abrupto e con veemenza incalzante, è sempre ai limiti dell’urlo espressionista cui peraltro si presta la fisicità ieratica, monolitica, del giovane attore Enrique Irazoqui: lo stesso è degli amici del poeta, intellettuali che egli ha scelto quali attori e figuranti, da Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, Francesco Leonetti e Natalia Ginzburg a Mario Socrate, Giorgio Agamben e Rodolfo Wilcock, per tacere del ruolo della Vergine affidato, in un frangente che sa già di testamento, a sua madre Susanna Colussi. E, in maniera analoga, sono i luoghi a familiarizzarsi con il regista, laddove i fiumi siccitosi di Galilea e i deserti di Palestina sono da lui rinvenuti fra Orte e Cutro, l’Etna e i Sassi di Matera perché, disse Pasolini in una intervista, che il suo «non è il passato mascherato da presente, ma il presente mascherato da passato». Il che, alla metà degli anni sessanta, allude ai processi di liberazione dal colonialismo in tutto il Terzo Mondo il cui contesto, agli occhi del poeta, si lega agli assetti ancora arcaici del Meridione italiano.

Qui, specie nei costumi meravigliosi dei Danilo Donati, si profonde una memoria colma di suggestioni pittoriche dove per esempio i copricapo, le vesti, le bardature dei cavalli e tutti quanti i segnacoli del potere religioso e politico vengono desunti dal grande ciclo di Piero in San Francesco, ad Arezzo, mentre la soldataglia di Erode Antipa (che Novi isola nel colore più livido, in uno scatto fra i più belli della mostra, come fossero militi di Salò) sembra uscire dai neri bitumosi di un Georges Rouault: quanto al cinema, ricorda Chiesi nel saggio introduttivo, vengono per primi i nomi di Dreyer e naturalmente del Rossellini di Francesco giullare di Dio (1950).

Lo sguardo di Novi è consonante con la poetica di Pasolini specie nella resa dei corpi e dei volti e, al riguardo, basterebbero le immagini di Natalia Ginzburg al trucco come Maria di Betania o di Leonetti che è un Erode di particolare compunzione o infine di Elsa Morante in visita al set, bella ed enigmatica con indimenticabili occhialini pop mentre è circondata o per meglio dire si circonda dei suoi amici attori.
Quando comincia la collaborazione con Pasolini (e durerà fino a Teorema, 1968) Novi è già un fotografo di fisionomia definita e lo rammenta in una intervista sua moglie Simonetta Borsini Novi: «aveva documentato Mamma Roma, sul cui set conosce Pasolini, che stimava moltissimo, e Anna Magnani alla quale scatta indimenticabili fotografie. Un primo piano della Magnani, drammatico e bellissimo, fu poi usato come poster per una mostra dedicata ad Angelo allestita a Roma a Palazzo Wedekind».

Comasco, nato nel 1930, militante comunista, dopo gli studi all’Accademia di Brera compie un lungo apprendistato internazionale per conto di Pubblifoto e poi di Dufoto inviando reportages dall’Ungheria (’56), dal Vietnam e Israele. Approdato al cinema, assecondando un’antica passione, in trentasette anni di attività (fino alla morte precoce nel ’97) Novi collabora da fotografo di scena a una sessantina di film tra cui, dopo l’incipit con Roberto Rossellini (Era notte a Roma, ’60), si annoverano Cronaca familiare (’62) di Valerio Zurlini, La mandragola (’65) di Alberto Lattuada, Metti una sera a cena (’69) di Giuseppe Patroni Griffi e Bubù (’70) di Mauro Bolognini.

Ma, assieme a Pasolini, i due registi con cui vive in maggiore sintonia sono senz’altro, opposti d’indole e stile e perciò complementari, Bernardo Bertolucci e Sergio Leone. Del primo, che segue da Il conformista (’70) a Io ballo da sola (’96), sente specialmente la matrice poetica, la densità cromatica delle immagini, e qui si vedano, riguardo al film da lui più amato (Novecento, ’76), i suoi scatti sognanti, tutti in biancoenero, nel catalogo Il Novecento di Bernardo Bertolucci nelle immagini di Angelo Novi (a cura di Manuela Cacchioli, MUP 2005); dell’altro maestro, Sergio Leone, con cui Novi collabora da Il buono, il brutto, il cattivo (’66) a C’era una volta in America (’84), sente viceversa la violenza sentimentale e l’afflato epico come a ogni spettatore si è reso subito evidente visitando la recente mostra intitolata La Rivoluzione Sergio Leone (a cura di Gian Luca Farinelli e Christopher Frayling, Cineteca di Bologna, 2019).

A proposito del fotografo di scena, scrisse l’altro Bertolucci, Giuseppe: «Il fotografo di scena è il mago che riesce a condensare nell’estrema sintesi di un’immagine fissa, di un battito di ciglia, il flusso della vita che scorre nelle immagini in movimento di una sequenza. È l’unico altro autore presente sul set oltre al regista (…) ma a differenza del regista non è condizionato dalla prolissità e dai tempi morti della lavorazione e dell’allestimento. Anzi quei tempi morti sono per lui preziosi, nei quali cogliere il backstage della finzione, la fenomenologia del Sublime». Questo potrebbe essere il ritratto di Angelo Novi.