«Angelo Mangiarotti. Quando le strutture prendono forma», è la mostra aperta lo scorso 27 gennaio alla Triennale di Milano (fino al 23 aprile), dedicata all’architetto milanese. Laureatosi al Politecnico di Milano nel 1948, proprio dopo la fine della seconda mondiale, aveva da subito fatto parte di quella generazione di creatori, designer e architetti italiani che, quasi senza accorgersene, si erano trovati a far parte del gruppo di artisti che avrebbero aiutato l’Italia a dimenticare le macerie della guerra e conquistare l’attenzione del mondo progettuale mondiale.

Iscritto alla facoltà di Architettura proprio all’inizio della guerra, aveva proseguito gli studi, dal 1943 al 1945, al Campo Universitario Italiano presso L’ École Polytechnique di Losanna, per poi proseguire e laurearsi a Milano. Per molto tempo resterà in stretto contatto con Nathan Rogers, collaborando anche alla preparazione dell’Ottava Triennale (che ebbe per temi protagonisti La ricostruzione e l’Abitazione) e la Nona. L’Ottava triennale è ancora ricordata per aver dato vita a un evento completamente innovativo – rispetto alle edizioni precedenti – che superava il limite della semplice esposizione temporanea di prototipi abitativi. Importante, e forse doloroso ricordare invece che, solo quella precedente, la VII, aveva aperto il 6 aprile 1940 repentinamente chiudendo già il 9 giugno, alla vigilia della dichiarazione di guerra di Mussolini agli alleati. E noi, più di 80 anni più tardi, vogliamo ricordare che, durante quella micro Triennale, non ci furono neanche confronti su tematiche culturali. Era semplicemente stato dato molto spazio agli architetti di regime, come per esempio Piacentini.

Laureato, aveva subito partecipato al concorso per il «Loop» di Chicago (sistema elevato di spostamento su treni ad anello). Qui Mangiarotti riuscì a conoscere architetti del calibro di Mies Van der Rohe, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright, sui cui progetti aveva studiato e da cui avrebbe imparato molto. La loro impronta formativa e di precisione resterà sempre una sua caratteristica come progettista e avrà un’influenza indelebile nelle sue scelte.

Nel 1953-54 era stato ‘visiting professor all’Institute of Design all’Illinois Institute of Technology e, tornato in Italia, aprirà a Milano il suo studio con Bruno Morassutti fino al 1960 (oggi Fondazione) e, nel 1989 dà vita al Mangiarotti & Associates Office con sede a Tokyo.

Come scultore si era rivolto anche a tecniche antiche, pazienti e precise, come l’uso della «cera persa», che utilizzava per creare le sue sculture.
Qualcuno l’ha definito il progettista milanese della seconda generazione, intellettuale e cosmopolita già a partire dagli anni ’50, era realmente riuscito a restare sempre uno coraggioso sperimentatore e innovatore.

Del resto come scrive Stefano Boeri (presidente Triennale Milano), «Triennale porta avanti da anni un percorso dedicato ai grandi maestri italiani del progetto, (…). A questi nomi si aggiunge ora quello di Angelo Mangiarotti, personalità poliedrica e internazionale che negli anni è stata testimone di eccellenti sperimentazioni nei campi dell’architettura, del design, della scultura, del progetto di infrastrutture… Una figura centrale nella cultura del progetto del ’900 (…)».

L’esposizione milanese si è avvalsa anche del contributo prezioso di Renzo Piano, lui stesso allievo e poi collaboratore di Mangiarotti. Insieme avevano lavorato, proprio qui in Triennale, alla 14esima Esposizione Internazionale del 1968. Anche il curatore della mostra, il professor Fulvio Irace, sottolinea che «l’esposizione in triennale è la prima occasione di restituire alla figura del grande maestro quella complessità che è stata per lungo tempo rimossa dalla sua fama di costruttore attento al processo della cultura materiale e alle tecniche della prefabbricazione.
È indubbio (…) che nella sua opera sia contenuta una vena espressiva di grande potenza plastica e scultorea, che lo colloca nel mondo dell’arte oltre che dell’architettura e del design».

E allora, una volta entrati nel corridoio d’ingresso, sulla parete colorata di sinistra troviamo suoi disegni e immagini di progetti che raccontano la sua creatività sempre attenta. I disegni a mano stanno sulla parete di fronte, e riconfermano l’importanza anche solo degli schizzi iniziali del progetto nel processo di ideazione, sia per un’idea architettonica che di design. Grandi stampe di fotografie fuori scala (con dettagli d’interni) ci raccontano un percorso che spiega i tanti temi della sua ricerca.

Ci sono edifici abitativi e non, (la casa a tre cilindri a San Siro del 1959, quella in via Quadronno realizzato con Morassutti nel 1960, le stazioni della metropolitana Repubblica, Venezia, Certosa e Rogoredo), e per la 14esima Triennale, progetti per fiere, ville, strutture industriali, come quello per la ditta Snaidero a Udine.
Materiali d’archivio originali raccontano un uomo sempre curioso e caccia di soluzioni semplici e, proiettato di continuo in una zona laterale della mostra, è possibile vedere il video-documentario Un angelo su Milano: Mangiarotti e la città, realizzato da Francesca Molteni.

Apparteneva a quella generazione che era nata e cresciuta durante la guerra, e che poi aveva affrontato la ricostruzione e quindi quel sorprendente miracolo economico.

Del resto, in quel momento era necessario anche lo sforzo di dare un volto e un’identità a un nuovo ambiente sociale e lavorativo.

La mostra diventa quasi un’avventura lungo le strade di Milano perché Triennale organizza una serie di tour per i visitatori per vedere i tanti lavori architettonici proprio nella sua città. Anche il Politecnico, nel periodo dell’apertura dell’esposizione, dedica a sua volta una mostra sull’architetto-designer: Angelo Mangiarotti e la cultura politecnica, (che sarà aperto dal 28 marzo fino al 30 maggio), quindi oltre la chiusura della mostra in Triennale). I progetti di design sono anche per molte aziende che hanno regalato grande successo al mondo del mobile dell’illuminazione (tra gli altri, anche quelli per Cappellini, Knoll, Skipper, Artemide). Sono lampade, orologi da comodino, modelli di oggetti per i quali doveva capire meglio i materiali, e tanti prototipi che spiegano qual era l’approccio di un architetto attento che, oltre a stringere seriamente la mano ai lati ingegneristici del suo lavoro, riusciva ad essere sempre e anche un artista gentile che modellava curve di vasi.

L’allestimento è composto da una serie di piattaforme con i nodi fondamentali della mostra. Ogni tavolo raccoglie prototipi, parti di lavoro che ruotano tutte intorno al tema della sperimentazione che si respirava nel suo studio. È indubbiamente un tributo dovuto agli oltre 60 anni di carriera, in cui si è sempre dedicato alla scrittura.