Al di là delle belle parole spese, lo spirito di sacrificio dimostrato da medici e infermieri durante la pandemia non ha portato a una maggiore attenzione del governo nei loro confronti.

L’ultimo episodio riguarda il Green pass, il tesserino per guariti e vaccinati che consentirà di riprendere la vita normale. Sebbene uno studio dell’Iss proprio ieri abbia dimostrato che gli anticorpi nei guariti permangono almeno per 8 mesi, secondo il governo il pass dovrebbe scadere sei mesi dopo il vaccino. Ma questo significa che molti sanitari, che hanno ricevuto la loro dose a gennaio, rimarranno scoperti all’inizio dell’estate.

Un pasticcio, come racconta al manifesto il presidente della Federazione degli ordini dei medici Filippo Anelli. «Il Green pass poggia sull’ipotesi che la durata degli anticorpi sia di sei mesi», spiega. «Ma le evidenze scientifiche possono modificare questo termine, allungando la scadenza del pass. Il nostro suggerimento al governo è di definire il Green pass in un modo che tenga conto delle evidenze scientifiche. Altrimenti per molti operatori sanitari il pass scadrà alla fine di luglio. Se dovesse accadere, saremmo costretti a riorganizzare in modo molto rapido una seconda vaccinazione degli operatori sanitari, per permettere loro di svolgere le normali attività professionali».

Eppure il governo si sta occupando della sanità, dalla pandemia al “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr). Non basta?

Il Pnrr finanzia strutture, ma sul territorio mancano i professionisti. E oggi questo è il problema centrale della sanità. Lo abbiamo visto negli ospedali durante la pandemia. Dopo tanti anni di blocco del turn over e di mancate assunzioni, siamo riusciti a raddoppiare il numero dei respiratori polmonari ma non quello degli anestesisti, perché ci vogliono cinque anni di tempo per formarne uno. Ma lo vediamo anche con i medici di famiglia: la concezione del medico di medicina generale è ferma a settant’anni fa, al dottore che girava per i comuni con la valigetta. Oggi è cambiato il mondo. Però i medici di base sono stati lasciati soli durante la pandemia, e infatti rappresentano oltre la metà dei sanitari uccisi dal Covid. La narrazione dei medici-eroi, d’altronde, prevedeva che sacrificassero la vita andando a svolgere un’attività resa insicura da parte dell’organizzazione sanitaria.

Nel Pnrr ci sarà anche qualcosa di buono.

Il Pnrr può essere l’avvio di una riforma, a patto che se ne discuta e se ne ragioni insieme. I professionisti sanitari devono essere co-autori della riforma. Potrebbero spiegare cosa fare delle “case della comunità” o degli ospedali. Benissimo renderli anti-sismici, come prevede il Pnrr. Ma abbiamo soprattutto bisogno di una rete ospedaliera più moderna, capace di modulare l’attività e le procedure sulla base delle esigenze assistenziali, come si è visto durante l’emergenza Covid. Nella pandemia, la questione della sicurezza degli ospedali non è stata risolta con la riorganizzazione dei percorsi: ci è voluto il vaccino.

Le “case della comunità” puntano a rilanciare la sanità territoriale. È la direzione giusta?

Tutti concordano che uno dei principi cardine della sanità debba essere la prossimità assistenziale. Le case della comunità non potranno essere abbastanza numerose da garantire la prossimità del servizio sanitario ai cittadini. Penso, per esempio, ai piccoli comuni. Le case della comunità devono inserirsi in un contesto che continui a fondarsi sulla prossimità. Possono diventare degli hub in cui i diversi servizi trovino una sintesi, ma difficilmente si può pensare che esse sostituiscano l’attuale sistema basato sui medici di base. In ogni caso, il nodo rimangono i professionisti: mancano gli infermieri, gli psicologi, le ostetriche, i terapisti della riabilitazione. E nel Pnrr le risorse per reclutare i professionisti non ci sono. Su questo vorremmo avviare un confronto con il governo.

Ci voleva la pandemia per vedere questi problemi? Eppure non sono iniziati oggi.

I problemi emersi durante la gestione della pandemia sono dovuti a scelte sbagliate effettuate nel passato. Scelte che rispondevano a una mentalità economicistica, tutta tesa a cercare il pareggio di bilancio e non a garantire gli obiettivi di salute per i cittadini. Se questo sistema non ha portato nella giusta direzione, occorre cambiare direzione. E i medici hanno competenze che sono a disposizione di chi governa: non hanno particolari competenze gestionali, ma di indirizzo sì, sanno di cosa quali sono i bisogni sanitari dei cittadini.

Ma non siete stati ascoltati. Nemmeno i cittadini lo sono stati.

La partecipazione è un altro aspetto importante. La modifica del titolo V della Costituzione doveva avvicinare la sanità ai cittadini, e invece l’ha allontanata. Quanto oggi la partecipazione dei cittadini incide sulle decisioni che un governatore può prendere? La legge 833 (quella che istituì il servizio sanitario nazionale nel 1978, ndr) prevedeva una partecipazione più forte da parte delle comunità locali, mettendo al centro dell’organizzazione dell’assistenza i bisogni dei cittadini.

Andrebbe rivista anche la regionalizzazione della sanità?

Non si possono mettere dieci miliardi di euro su un tavolo senza pensare a un processo riformatore. Altrimenti faremmo una restaurazione, non una riforma. Il veri punti fondamentali sono la governance del sistema, le disuguaglianze non risolte con la regionalizzazione, la partecipazione dei professionisti ora ridotti a prestatori d’opera.