La partitura è perduta, la data del debutto è incerta, il libretto è sopravvissuto, ma non è detto sia fedele alla prima rappresentazione. Eppure, nonostante sia poco più che un fantasma, la leggendaria Andromeda di Benedetto Ferrari e Francesco Mannelli è forse l’opera teatrale più importante nella storia della musica occidentale. Un paradosso che, in realtà, non è così surreale come potrebbe apparire. Per capirlo occorre anzitutto disegnare la cornice storica entro la quale, in un imprecisato giorno di Carnevale del 1637, la creatura viene alla luce. Ci troviamo a Venezia, una città-stato ricca e florida, nonostante l’apice della sua fortuna economica e commerciale sia stato toccato nel cuore del secolo precedente. Nel Seicento la Repubblica veneziana perde, dopo la guerra di Cambrai, possedimenti strategici cruciali come Cipro e Creta, ma si espande in Dalmazia. Dal punto di vista politico non costituisce, a rigore, una vera e propria repubblica, bensì l’espansione di quella struttura di tipo comunale che si era sviluppata in Italia sin dal XII secolo. Il potere è detenuto dai cosiddetti nobili veneziani del Maggior Consiglio: un gruppo sociale costituito inizialmente da circa duemila persone che si autoproclama classe dirigente. Non si tratta ovviamente di «nobili di spada» – come si diceva allora – bensì di una élite commerciale e mercantile che si era arricchita nei secoli precedenti grazie ai traffici con il medio e l’estremo oriente, il cui ritratto più fedele è quello dipinto da Shakespeare nel Mercante di Venezia. Di fatto, la classe dominante è costituita, esempio unico nel quadro sociale della penisola italica, da una borghesia commerciale chiusa e aggressiva, le cui famiglie dominanti nominano i propri rappresentati nel Maggior Consiglio ed esprimono a rotazione, rispettando delicatissimi equilibri di potere, la figura elettiva e non ereditaria, del Doge.

La forte disponibilità di denaro, spesso investito nella costruzione dei sontuosi palazzi affacciati sul Canal Grande, nonché una liberalità di costumi tipicamente veneziana, favoriscono, sin dalla metà del Cinquecento, la creazione di una rete di piccoli e grandi teatri «di famiglia», realizzati all’interno e all’esterno delle dimore aristocratiche. Durante il Carnevale, ma spesso anche in occasione delle feste religiose e civili, i teatri ospitano, a pagamento, le compagnie specializzate nella commedia dell’arte. Ed è proprio la consuetudine del teatro a pagamento a ispirare a Francesco Mannelli, compositore, cantante e impresario romano, insieme a Benedetto Ferrari, poeta e tiorbista reggiano, l’idea del secolo: mettere in scena, sempre a pagamento, non più i soliti canovacci ormai usurati di Pantalone, Arlecchino e Colombina, bensì il nuovo grandioso spettacolo d’opera che negli anni precedenti aveva fatto furore a Firenze, a Mantova e a Roma. E i commercianti veneziani impazziscono per uno spettacolo inaudito, in cui le storie sono cantate e non solo parlate, e che li fa sentire, in cambio di un semplice biglietto o di un abbonamento assai simili ai nobili «di spada» romani e fiorentini. Ferrari e Mannelli portano dunque sul piccolo, ma funzionale palcoscenico del Teatro S. Cassiano, di proprietà della famiglia Tron, la loro nuovissima Andromeda: storia mitica e avventurosa, allestita senza risparmiare – come testimonia il libretto – effetti teatrali «maravigliosi». Si assumono, di conseguenza, i classici rischi di impresa: pagano di tasca propria l’affitto del teatro, i cantanti, i musicisti, le scene, i costumi, i falegnami, i pittori, i fabbri e gli stampatori e sperano che il botteghino ripaghi loro le spese, con l’aggiunta di un più o meno consistente profitto. La svolta è davvero epocale: da quel momento in poi l’opera diventa una merce, per quanto immateriale, che si vende e si compra come una derrata di frumento o un carico di stoffe preziose. E la musica fa il suo ingresso trionfale nell’universo del libero mercato.