Nella Introduzione a C’era una volta Andreotti. Ritratto di un uomo, di un’epoca e di un Paese, nuova edizione riveduta e ampliata del suo Andreotti, Massimo Franco racconta: «Quando nel 1989 gli feci sapere che avevo scritto una biografia su di lui, la risposta fu fulminante. ‘Mi vuole preparare il coccodrillo?’ disse con una voce resa ancor più nasale dal sarcasmo». E poi «Aggiunse che non amava le biografie da vivo. Ma capiva che si potesse parlare di lui ‘perché in fondo’ celiò con civetteria ‘io sono postumo di me stesso’». Concordo assai con Franco quando scrive «di una sinistra ideologica, confusa di fronte a un personaggio troppo sfaccettato e carico di storia, per suggerire non solo risposte, ma a volte anche domande pertinenti».

«A volte» suona qui come una attenuazione che giudico eccessiva. Mi chiedo infatti quando, da trent’anni in qua, la ‘sinistra’, come plurale compagine partitica e di movimenti, a far data dal 1991, dalla fine del Pci, si è mostrata interessata e si è impegnata ad una ricostruzione critica della vicenda propria e della storia italiana dopo il 1945, elaborando una consapevolezza da porre a fondamento e ad alimento delle sue proposte sociali e dei suoi programmi politici? Consapevolezza da esibire a conferma d’una sua pertinenza alle difficili emergenze sociali, ai repentagli ai quali era ed è esposta la democrazia repubblicana. Una sinistra pertinente, all’altezza del caso italiano.

Si dica piuttosto che una sua attuale consunzione e irrilevanza politica è, anche, il portato e il risultato di questa trentennale incapacità e superficialità culturale. Non si è forse, per stare ad Andreotti, questa ‘sinistra’ accontentata di istruttorie e di sentenze che parlano di Andreotti e di mafia, dimostrando così di non volere o sapere intendere né di Andreotti né di mafia? Che è come dire, per chi pretenda rinnovare l’Italia, non sapere e non volere intender nulla del proprio Paese: e cioè di sé medesimo come attore politico. Ma tant’è.

Franco si applica a studiare l’uomo Andreotti per decifrare un’epoca e un Paese. E questo suo libro va annoverato tra i contributi pensati a che sugli anni della Repubblica ci si interroghi con profitto. Il che è possibile solo quando si è in grado di formulare domande attendibili, ovvero adeguate e corrispondenti a questioni specifiche e circostanziate. Che è dire questioni d’ordine storico. Da questa angolatura, la rappresentazione corrente della figura di Andreotti (nella pubblicistica quotidiana, nella interlocuzione televisiva, nella resa cinematografica) se è purtroppo esemplare della inettitudine della ‘sinistra’ lo è altrettanto e più di un Paese, del suo ceto dirigente, restio a ragionare criticamente su sé stesso. Indolente e fatuo ad acquisire un senso del proprio passato, premessa necessaria quando si intenda intervenire responsabilmente sul presente. Intervenire sul presente, operare politicamente. Tema che ci riporta a quell’‘io sono postumo di me stesso’ che Andreotti proferisce al suo biografo.

Il vocabolo italiano postumo deriva da una voce che in latino si estende da post: vale dietro, se avverbio di luogo, e vale dopo se di tempo. Il latino ha il verbo postumare che si rende con un venire dopo e un tener dietro, seguire. Ebbene, mi piace pensare alla attività politica di Andreotti come ad un latino postumare. Quel postumo che Andreotti conferisce a sé stesso, il suo costante, diuturno, meticoloso, preciso tener dietro, che non è un venir dopo proviene dal versante locativo dell’avverbio post. Là mi pare sian fiorite le virtù politiche di Andreotti, quella sua maestria nell’aderire costantemente a quanto emerge, la vigile rilevazione di come si muove il corpo vivo della società, presidiato in ogni minima parte della sua estensione ed esistenza. Perché Andreotti, è noto, non ritiene la politica possa essere trasformazione, mutamento. La politica ha da tener dietro alle lente «vicissitudini inevitabili delle società civili» come le chiamò nel 1791 Antonio de Giuliani, che essa, postuma, non è in grado di variare né indirizzare, ma che può, semplicemente, riconoscere. In quell’osservarle, registrarle, assumerle forse, sta il ridotto margine di intervento che Andreotti ha chiamato governo.