L’arte è in grado di fagocitare ogni oggetto, gesto e idea, perfino quelle che la negano o l’avversano. Durante la crisi innescata nel Novecento dalla scoperta di questa forza di conversione universale, l’arte ha interrogato con insistenza crescente se stessa chiamando ad arbitro delle proprie mosse il museo, di cui ha dapprima celebrato, poi irriso e infine rimpianto l’autorità. Oggi il mito avanguardista della creatività onnipotente – così prezioso per l’ardore imprenditoriale del neoliberismo – obbliga il museo a convivere con il sospetto che la propria autorità sia solo un’allucinazione collettiva o una montatura commerciale. Esiste infatti un’incongruenza neppure troppo sottile tra l’immagine che di sé e a sé il museo presenta quale spazio autonomo di una neutrale esperienza estetica, quando non di contestazione politica, e la realtà delle relazioni oggettive che lo strutturano. Questa incongruenza è il bersaglio della cosiddetta «critica istituzionale»: un’attitudine coltivata da varie generazioni di artisti e critici a partire dalla fine degli anni sessanta. La critica istituzionale tematizza la posizione ambivalente degli agenti in gioco, a un tempo determinata e determinante rispetto a uno schema ideologico che gli agenti concorrono a definire e ratificare.
Andrea Fraser (1965) è un’artista e studiosa statunitense, docente all’Università della California, a Los Angeles, considerata esponente di spicco dell’institutional critique. Da sempre Fraser commenta con intelligenza l’ambiguità strutturale dell’arte contemporanea, territorio in cui ogni cosa sembra recare in sé il germe del suo esatto contrario. Il suo nuovo lavoro è un libro intitolato 2016 in Museums, Money, and Politics (Westreich Wagner, The Wattis Institute e MIT Press, pp. 1000, dollari 125.00, 240 grafici), un volume che assommando 1000 pagine rilegate a brossura ha la stessa mole poco maneggevole di un elenco telefonico. La domanda fondamentale a cui 2016 vuole rispondere è se gli enti con finalità artistiche e pedagogiche, che negli Usa sono in gran parte finanziati e presieduti da ristretti gruppi di mecenati, aiutino davvero il progresso della nazione o servano invece a legittimare il potere dei ricchi: «dobbiamo renderci conto che è in gioco molto più che il sovvenzionamento di mostre e acquisizioni».
Il libro si articola attorno a due grandi indici. Il primo è una lista di 128 tra le principali organizzazioni culturali Usa, ordinate per Stato e nome, che nel periodo in esame si sono in un modo o nell’altro occupate di arte contemporanea. I musei americani, seguendo il modello fissato nel tardo Ottocento dal Metropolitan Museum of Art di New York, nascono perlopiù come associazioni private non profit governate da comitati che si auto-nominano e auto-confermano. Anche se la partecipazione a un comitato non è necessariamente vincolata ai soldi, la capacità di effettuare o procacciare donazioni resta comunque un requisito preferenziale. Di ogni ente, 2016 menziona i membri dei board (direttivi, consultivi, d’amministrazione), per un totale di 5458 nomi, in maggioranza di individui maschi e bianchi.
La seconda sezione riporta, specificando cifre e relativi beneficiari, gli oltre 36000 contributi finanziari superiori ai 200 dollari erogati nel periodo compreso tra gennaio 2015 a settembre 2017 da 2411 componenti dei suddetti board a favore di partiti e candidati in lizza per le presidenziali del 2016. I due elenchi sono preceduti da un’introduzione in cui vengono illustrate ragioni, criteri e fonti della ricerca; mentre è volutamente omesso ogni commento ai dati raccolti.
Non c’è nulla di nuovo nell’uso politico della cultura e dell’arte, e nemmeno nel concetto d’inchiesta artistica sull’arte proposto da 2016, che procede in un solco tracciato decenni fa da autori come Haacke, Buren e Broodthaers. Inoltre, il conflitto d’interessi dei board museali americani è materia di discussione almeno fin dai tempi dell’Art Workers’ Coalition e del Guerrilla Art Action Group. Piuttosto, il libro ha l’urgenza di mostrare in maniera inconfutabile un inquietante fenomeno d’involuzione democratica colto nella commistione tra finanziamenti alla politica e mecenatismo culturale in occasione della campagna elettorale più dispendiosa (6,4 milioni di dollari) della storia americana. Il «2016 può essere ricordato dagli storici come l’anno in cui gli Stati Uniti hanno abbandonato ogni pretesa di essere una democrazia, rivelandosi piuttosto una consolidata forma di plutocrazia». Gli Usa avrebbero infatti imboccato una china per cui le decisioni del governo favoriscono sistematicamente una minoranza agiata e corporativa che attraverso le donazioni è in grado d’influenzare in maniera profonda gli esiti delle elezioni: un circolo vizioso che produce livelli di disparità sociale tali da svuotare di senso la natura democratica del Paese. In questo contesto la filantropia, cioè l’elargizione liberale di fondi a enti culturali, è un palliativo con cui la minoranza abbiente mitiga le richieste della popolazione per una più equa redistribuzione della ricchezza, e al contempo si garantisce un canale opaco, esentasse, dove muovere il denaro, mascherando all’attenzione pubblica la propria condotta di sfruttamento e abusi. I musei diventano un veicolo per tradurre valori privati in valori pubblici senza passare per i compromessi e gli adeguamenti che i procedimenti politici normalmente comportano.
Lungi dall’essere incondizionato, il settore culturale statunitense si regge su quella che Fraser chiama una «classe donatrice», la quale mediante rapporti di «captazione e accesso» mantiene in una dipendenza spirituale non meno che economica una «classe beneficiaria», in cui rientrano anche gli artisti. Di qui l’esigenza di esumare e dissipare le contraddizioni da cui emerge l’attività artistica. Nella sua crudezza da registro contabile, 2016 è uno strumento per la trasparenza e testimonia il divampare di speranze radicali nel bel mezzo delle loro radicali negazioni